“Un atto di guerra in tempo di pace in un paese a sovranità nazionale limitata”. Così Giuliano Amato ha definito, con inusitata sincerità, la tragedia di Ustica. La strage del 27 giugno 1980 (un Dc9 dell’Itavia esplose in volo nel cielo di Ustica, causando la morte di 81 persone, tra passeggeri e membri dell’equipaggio) è tornata nelle prime pagine dei media dopo l’intervista concessa dall’ex Presidente del Consiglio al quotidiano “La Repubblica”, con l’obiettivo dichiarato di “lanciare una sfida per arrivare alla verità”. Infatti, a distanza di 43 anni, non esiste ancora una versione definitiva accertata per questa tragica pagina della storia nazionale. Le sue parole, sintetizzate con un titolo di grande impatto (“Ecco la verità su Ustica, Macron chieda scusa”), hanno determinato una girandola di opinioni intorno alla vicenda.
«A mio avviso, l’intervista di Amato ha il pregio di aver innescato un dibattito interessante sulla strage e sui misteri italiani del 1980 – ha commentato Valerio Cutonilli, avvocato che, nell’occuparsi dell’inchiesta sulla strage di Bologna del 2 agosto 1980 (“I segreti di Bologna“, scritto a quattro mani con l’ex giudice Priore, e “La strage di Bologna tra ricostruzione giudiziaria e verità storica“), ha studiato lo scenario internazionale di quegli anni – Ho sempre seguito con attenzione il dibattito che si è sviluppato attorno alla strage di Ustica e le diverse posizioni sulla dinamica della strage (‘partito del missile’ e ‘partito della bomba a bordo’). Le due fazioni litigano sulla distribuzione delle responsabilità e sulla matrice della strage. Entrambe, però, riconducono l’evento a un conflitto che sarebbe esploso nell’estate del 1980 tra l’Occidente e Gheddafi. Comprenderlo fino in fondo gioverebbe a una maggiore chiarezza su quello che è accaduto. Un limite di tale dibattito sta nelle reciproche accuse di malafede, puntualmente rivolte a chi la pensa in modo opposto. Gli ‘altri’ sono sempre depistatori che vogliono nascondere la verità. Una follia. Nello scrivere il libro sulla strage di Bologna assieme a Rosario Priore, il giudice che aveva condotto l’istruttoria sulla strage di Ustica, ho potuto conoscere il suo argomentato convincimento: il Dc9 è rimasto indirettamente vittima di uno scenario di guerra aerea. Quando sento che chi sostiene questa tesi lo farebbe per attaccare l’Occidente o l’Aeronautica, per motivi ideologici, mi metto a ridere perché so benissimo che non è vero. Non è stato mai questo l’obiettivo di Priore, privo di pregiudizi verso l’Aeronautica e molto poco interessato a diventare il paladino di Gheddafi. Figura questa di cui conosceva molto bene la pericolosità per aver condotto altre importanti inchieste sul terrorismo arabo che lo chiamavano in causa. Priore ha formulato quelle conclusioni realmente convinto, senza doppi fini. Del resto, molte persone che lo esaltavano per la sua posizione su Ustica, lo hanno poi ‘massacrato’ quando ipotizzò una responsabilità del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) e del gruppo Carlos (Ori) nell’esplosione di Bologna. Individuando così per la tragedia del 2 agosto 1980 una matrice esattamente opposta a quella di Ustica. Si è fatto nemici su entrambi i fronti, a dimostrazione che i suoi convincimenti non riflettevano finalità politiche. Peraltro, le conclusioni a cui era giunto sono le stesse del presidente Cossiga, che negli ultimi anni di vita ha voluto lasciare il suo ‘testamento storico’, evidenziando una responsabilità occidentale per la strage di Ustica e palestinese per quella di Bologna. Allo stesso modo, però, non mi piace nemmeno l’atteggiamento di chi taccia di malafede quanti sostengono la tesi della bomba a bordo. Faccio un esempio. Ho partecipato ad alcuni convegni pubblici con Danilo Coppe, considerato il maggior esperto italiano di esplosivistica. Si tratta del perito d’ufficio della Corte d’Assise di Bologna nel processo Cavallini, esperto di altissima caratura, che riguardo ad Ustica propende chiaramente per la tesi della bomba a bordo. Dopo aver studiato tutte le evidenze peritali, ha ritenuto inconsistenti le perizie a favore del missile. Non credo minimamente che la posizione di Coppe sia stata presa in malafede o con ulteriori finalità. Ritengo quindi rispettabili entrambe le posizioni. Mi piacerebbe quindi che avesse inizio finalmente un dibattito fondato sul reciproco rispetto, affrancato da quel clima di sospetti e accuse incrociate che poi impedisce di riflettere e confrontarsi».
Secondo Amato, protagonista della politica italiana dai primi anni ’80 per diversi decenni, “la versione più credibile è quella della responsabilità dell’aeronautica francese, con la complicità degli americani e di chi partecipò alla guerra aerea nei nostri cieli la sera di quel 27 giugno. Si voleva fare la pelle a Gheddafi, in volo su un Mig della sua aviazione. Il piano prevedeva di simulare un’esercitazione della Nato, con molti aerei in azione, nel corso della quale sarebbe dovuto partire un missile contro il leader libico: l’esercitazione era una messa in scena che avrebbe permesso di spacciare l’attentato come incidente involontario. Gheddafi fu avvertito del pericolo e non sali sul suo aereo, E il missile sganciato contro il Mig libico finì per colpire il Dc9 dell’ltavia che si inabissò con dentro ottantuno innocenti. La Francia su questo non ha mai fatto luce”. Versione che, comunque, appena due giorni dopo, sempre sulle pagine di “Repubblica”, ha edulcorato: “Un racconto storico che non aspirava a rivelare segreti sconosciuti, ma ad avvalorare una ricostruzione… che ho potuto fare mia e rilanciare grazie a una quarantennale esperienza dentro le istituzioni dello Stato. Chi sa parli ora”.
Questa interpretazione impone un’attenta rilettura degli avvenimenti internazionali che hanno preceduto la strage di Ustica. Per inquadrarla sul piano storico è necessario ricostruire lo scenario internazionale, pesantemente condizionato dalla ‘Guerra fredda’ e dalle rivalità all’interno del modo arabo.
«È necessario illustrare tale scenario in tutti i suoi aspetti e non, come accade troppo spesso, mettendone in luce solo una parte gradita, a seconda delle proprie simpatie ideologiche, geopolitiche o di carattere militare. Vanno chiamate in causa tutte le parti contrapposte, ricordati i numerosi protagonisti di uno scontro che nel 1980 supera i livelli di guardia. Una volta ricostruito interamente il mosaico, si potrà collocare ogni singolo evento in modo corretto. Per capire bisogna tornare indietro di almeno 13 anni. Il 1967 è un anno fondamentale per la ricostruzione dei fatti. Nel dopoguerra, infatti, il rapporto tra i paesi dell’Europa occidentale e le nazioni arabe, non solo la Libia, è stato sempre condizionato dal contenzioso israeliano-palestinese. Tale conflitto ha progressivamente generato un’interferenza nelle relazioni tra l’Ovest e il Medioriente, sino a provocare un vero e proprio scenario di crisi nel quale i rapporti di forza della ‘Guerra fredda’ prevarranno sugli obiettivi perseguiti dai singoli Stati, soprattutto quelli muniti di una sovranità limitata. Se si rileggono gli articoli dell’Unità di fine anni ’40, si scopre che il Partito comunista italiano aveva nei confronti della Nazione israeliana un atteggiamento di simpatia. La preferenza araba sarebbe maturata negli anni successivi. Il cambiamento, a partire soprattutto dall’inizio degli anni ‘60, è dovuto ad aspetti che riguardano lo scontro tra le superpotenze. Il rapporto molto stretto tra Israele e gli americani veniva seguito da Mosca con interesse. Infatti, esso generava nel mondo arabo un forte risentimento nei confronti di Washington. Tale situazione venne ritenuta potenzialmente utile agli obiettivi di politica estera dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia. Nel dopoguerra, l’Urss, per ragioni sia ideologiche che strettamente strategiche, aveva sostenuto in molteplici luoghi del pianeta le lotte di liberazione nazionale, l’insurrezione delle popolazioni, le guerre per la decolonizzazione. Tale supporto rappresentava non solo una forma di solidarietà per quanti nutrivano ideali affini a quelli sovietici, ma le azioni di sostegno andavano anche a indebolire il fronte occidentale. In questa prospettiva, il teatro mediorientale divenne sempre più importante perché molti paesi arabi erano fornitori di petrolio. Il poderoso sviluppo industriale delle nazioni occidentali, come lo stesso boom economico vissuto dall’Italia, che avvilisce non poco il Patto di Varsavia, implicava esigenze sempre maggiori sotto il profilo dell’approvvigionamento energetico. L’importanza strategica del Medio Oriente cresceva, quindi, in proporzione allo sviluppo industriale dell’Ovest. Tuttavia, sino ad un certo momento tale situazione non aveva generato particolari tensioni. I paesi europei riuscirono, con un certo pragmatismo, a fare affari con le nazioni arabe, spesso imponendo loro condizioni estremamente svantaggiose, e al contempo a mantenere integro il rapporto di amicizia con Israele, considerato l’avamposto occidentale nel Medio Oriente».
Un’evidente contraddizione all’interno delle relazioni internazionali che, però, per buona parte degli anni ’60 non aveva causato conseguenze rilevanti.
«Lo scenario cambiò a partire dal 1967 per lo scoppio della ‘Guerra dei sei giorni’. Israele, forte di un esercito giovane e tecnologicamente avanzato, sconfisse con una facilità disarmante i nemici. In quel momento, l’Egitto di Nasser svolgeva un ruolo particolarmente importante nel mondo arabo. Lui è il leader riconosciuto del panarabismo e l’Egitto viene considerata la nazione più importante del mondo arabo. Quella che avrebbe guidato e vinto la guerra di liberazione dalla minaccia israeliana. Fino a quel momento le popolazioni arabe, a partire da quella palestinese, avevano coltivato la speranza di vincere una guerra convenzionale contro ‘l’intruso’. Il 1967, invece, dimostrò che quella prospettiva era irrealizzabile L’aviazione egiziana venne addirittura umiliata, annientata in poche ore. Le conseguenze della disfatta araba furono molto gravi. L’Egitto perse il Sinai e il controllo di una parte del canale di Suez, la Siria una parte del Golan e persino Gerusalemme finirà nelle mani israeliane. Uno scenario nefasto per tutto il mondo arabo e in particolare per il popolo palestinese. Sino ad allora, quest’ultimo non aveva praticato la lotta armata in forme rilevanti e sistematiche. Esso, inoltre, aveva delegato la guerra di liberazione alle nazioni arabe che si erano distinte come paladine della loro causa. Tanto che l’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) era stata fondata nel 1964 sotto l’egida egiziana. Per i palestinesi un dramma ancora maggiore di quello delle popolazioni arabe sconfitte nella guerra. Le loro guide politiche ritennero indispensabile promuovere una nuova stagione di lotta, assumendo essi stessi un ruolo da protagonisti nello scontro in atto. Anche ricorrendo a mezzi non ortodossi, non essendo possibile uno scontro militare generalizzato tra le fazioni palestinesi e le forze armate israeliane».
Proprio il 1967 è l’anno della svolta nel mondo palestinese.
«Al-Fatah, l’organizzazione fondata da Yasser Arafat nel 1959, entrò nell’Organizzazione per la liberazione della Palestina e in due anni ne divenne il gruppo egemone. Il suo leader diventerà il presidente dell’intera Olp. Di religione musulmana, Arafat si dimostrò molto attento anche alla minoranza cristiana del popolo palestinese. Viene ricordato per la sua costante presenza alla messa di Natale. Gesto che significava un messaggio preciso all’Occidente. Il leader dell’Olp, infatti, cercherà sempre un’interlocuzione con i paesi dell’Ovest. Egli, inoltre, puntava a conservare buoni rapporti con i regimi arabi, anche quelli di orientamento conservatore. Arafat, contrariamente a quello che pensano molti, non è mai stato particolarmente amato dai sovietici che solo per necessità non gli negheranno mai il sostegno. Non è marxista e a Mosca non piace la sua strategia ‘levantina’, finalizzata a trovare consensi da entrambi i lati del Muro di Berlino. All’interno di Al-Fatah, però, agivano figure con un rapporto decisamente migliore con l’Unione Sovietica, come Abu Ayad (noto anche Salah Khalaf) che diverrà il capo degli apparati di sicurezza dell’intera Olp. Stratega della controffensiva terroristica in Europa, Ayad sarà uno dei principali attori nello scenario di crisi del 1980. Un’altra organizzazione interna all’Olp – e che, dopo Al-Fatah, è la più importante – prenderà una strada inizialmente diversa. Si tratta del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, costituito da George Habash. Un pediatra di religione cristiana ortodossa che fino a quel momento aveva diretto una clinica per bisognosi. Una sorta di uomo della carità che dopo la disfatta del 1967 si trasformò in un terrorista spietato. Il Fplp guardava con ammirazione alla Cina e aveva una connotazione marxista-leninista. A differenza di Al-Fatah, non intendeva limitarsi alla liberazione della Palestina ma voleva fondare uno stato socialista. Non si dimostrava ostile solamente ad Israele, ma aveva un atteggiamento fortemente critico nei confronti di paesi come l’Arabia Saudita, a guida conservatrice, ritenuti responsabili dell’arretramento culturale, ideologico e tecnologico, del mondo arabo. Arretramento ritenuto alla base della sconfitta sistematica nei confronti di Israele. Perciò, il Fplp cercava, ottenendolo, il supporto soprattutto dei paesi considerati ‘progressisti’. La strategia scelta era quella di internazionalizzare il conflitto. Di esportare la lotta armata anche in Occidente, non limitandosi a colpire il nemico israeliano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania. Sarà infatti il Fplp a inaugurare la nuova fase del terrorismo internazionale. Un suo dirigente, Wadi Haddad, anche lui cristiano ortodosso, venne incaricato di dirigere le operazioni all’estero. Haddad è considerato in modo unanime il padrino del terrorismo moderno. È lui che darà avvio alla stagione dei dirottamenti aerei. La sede prescelta è proprio l’Italia: nel 1968 un aereo, partito dall’aeroporto di Fiumicino e diretto a Tel Aviv, venne dirottato in Algeria e i passeggeri tenuti in ostaggio, prima di essere scambiati con alcuni combattenti palestinesi che erano detenuti nelle carceri israeliane. Da questo preciso momento i paesi occidentali, soprattutto quelli europei, vengono attirati loro malgrado nel conflitto israeliano-palestinese».
Nel 1972, Oriana Fallaci intervistò Habash, chiedendo perché il Fplp volesse imporre agli europei una guerra che non gli apparteneva: “Il nostro nemico è Israele, più il movimento sionista che domina in molti paesi dove si appoggia Israele, più l’imperialismo. Se dovessimo fronteggiare solo Israele, la faccenda sarebbe quasi semplice, ma dobbiamo fronteggiare chiunque appoggi Israele economicamente, militarmente, politicamente, ideologicamente. Vale a dire i paesi capitalisti che hanno voluto Israele e ora se ne servono come baluardo nei loro interessi in Arabia. Questi Paesi includono, oltre all’America, quasi tutta l’Europa. In guerra è lecito colpire il nemico ovunque egli sia”.
«Il Fplp, essendo un’organizzazione marxista, vedeva Israele come una costola del mondo occidentale capitalista, un nemico territoriale che presenta, però, articolazioni molto più estese. Il Fronte popolare individuava il punto debole degli israeliani proprio nel rischio di un progressivo isolamento dai potenti alleati occidentali. Nella necessità d’Israele di comunicare con loro attraverso le vie di mare e di cielo. Proprio queste vie iniziarono ad essere attaccate in modo sistematico, con l’obiettivo di rendere sempre più problematici i collegamenti tra l’Occidente, in particolare gli stati europei, e Israele. Per Habash era giunto il momento che le relazioni dei paesi occidentali con gli israeliani avessero un costo. Ad avviso del Leader palestinese, infatti, l’Ovest non poteva continuare a prendere petrolio arabo a condizioni di favore e al contempo sostenere il nemico israeliano. Un obiettivo condiviso dall’Unione Sovietica che lo riteneva funzionale ai propri interessi strategici. Infatti, esso era destinato a creare una crescente frattura tra le nazioni inquadrate nel Patto Atlantico e gli stati arabi fornitori di petrolio. Il Fplp, conoscendo i rapporti di forza, sapeva di non poter sconfiggere il nemico sul piano militare. Perciò, cercava d’indebolire Israele attraverso forme di guerra non convenzionali. Al contempo, i sovietici traevano vantaggio dalle operazioni promosse dall’oltranzismo palestinese contro l’Occidente. Se la logica di Yalta impediva in Europa azioni militari dirette, l’indebolimento degli stati occidentali poteva essere perseguito attraverso lo strumento più accorto della guerra ‘surrogata’. Per i governi europei iniziarono a farsi sempre più complicate le relazioni coi paesi arabi fiancheggiatori di un gruppo terroristico, capace di sferrare, nell’arco di pochi mesi, i suoi attacchi a Roma, Londra, Monaco di Baviera, Atene. Gli osservatori più attrezzati erano consapevoli del supporto fornito in modo riservato dall’Unione Sovietica al Fplp. Oggi ampiamente dimostrato dal fatto che Haddad diventerà un agente del Kgb. Allo stesso tempo, però, va escluso che il Fronte popolare nella liberazione della Palestina fosse un mero burattino nelle mani dell’Unione Sovietica. In realtà, non vi era alcuna eterodirezione, con buona pace dei complottisti. Si notava, invece, una reciproca diffidenza perché entrambe le parti interessate ritenevano utile un rapporto sinergico, assistito peraltro da un collante ideologico non trascurabile. Ma il Fplp manteneva ostinatamente la priorità del proprio obiettivo, cercando in ogni modo di non renderlo secondario rispetto agli interessi sovietici: la liberazione della Palestina. I sovietici, d’altra parte, apparivano molto preoccupati dalle iniziative di questa organizzazione palestinese, supportata dai paesi arabi progressisti, che riusciva a praticare il terrorismo su scala mondiale e che talvolta sembrava non conoscere il senso della misura. Durante queste operazioni, infatti, si registrano fatti particolarmente incresciosi: nell’incendio di un ospizio morirono diversi anziani, in un attacco all’aeroporto di Atene perse la vita un bambino di dodici anni, iniziarono a cadere gli aeroplani. Mosca, quindi, si pose il problema di coniugare questo sostegno, strategicamente utile, con la tutela della propria immagine internazionale. Questa apparente contraddizione venne risolta con la segretezza dei rapporti. Anni dopo, grazie all’Archivio Mitrokhin (militare e agente segreto sovietico che ha diffuso materiali riservati del servizio segreto dell’Urss, ndr), si è scoperto che le forniture di armi e di esplosivi si realizzavano in alto mare, affinché questa relazione così stretta con un’organizzazione terroristica sfuggisse all’occhio dei paesi occidentali. Il Kgb si preoccupò di garantirlo al segretario del Pcus, Leonid Breznev».
Tra gli sponsor del Fplp, all’Egitto di Nasser e alla Siria, interlocutore privilegiato dell’Unione Sovietica nell’area mediorientale, dal 1969 si aggiunse la Libia del colonnello Gheddafi, che proprio in quell’anno aveva organizzato vittoriosamente un colpo di stato per detronizzare Re Idris.
«Si tratta di un evento di elevata importanza, al pari della ‘Guerra dei sei giorni’ del 1967. Il golpe libico scatenerà una serie di conseguenze anche nel mondo occidentale, generando divisioni e contrasti al suo interno. Sino a quel momento, la monarchia libica aveva conservato relazioni privilegiate con il Regno Unito, con rilevanza negli equilibri della ‘Guerra fredda’, e anche la partita delle forniture petrolifere era stata a vantaggio di Londra. Gheddafi in pochi mesi modificherà completamente il posizionamento internazionale del paese libico. Risolte le iniziali criticità, dovute alla ‘cacciata’ degli italiani, il regime di Tripoli instaurò un rapporto sempre più stretto con l’Italia. Tali relazioni saranno anche alla base del cosiddetto ‘Lodo Moro’. Da una parte il leader libico si erge immediatamente a nemico di Israele e a sostenitore della causa palestinese, elogiando l’Fplp, dall’altra trova nell’Italia una sponda imprescindibile per la crescita industriale e tecnologica del Paese. La Libia garantirà, a condizioni di favore, le forniture di petrolio all’Italia, diventando al contempo uno dei maggiori acquirenti di prodotti italiani, anche di fabbricazione militare. Un business di enormi proporzioni che restituisce ossigeno all’economia italiana scaturita dal boom economico, duramente provata dalle congiunture internazionali negative degli anni ‘70. Dall’aumento esorbitante del costo delle materie prime alla quadruplicazione improvvisa del prezzo del greggio. Dando origine a una situazione di manifesta e crescente contraddizione. L’Italia rimane ancorata all’Alleanza Atlantica, all’interno della quale riveste un ruolo minore, e al contempo lega il suo destino a una Nazione che svolgerà progressivamente una funzione destabilizzatrice per gli interessi occidentali nell’area del Nord Africa e del Medio Oriente. Ciò sarà causa di tensioni con i paesi del blocco occidentale intenzionati, per ragioni anche economiche, a contrastare l’azione di Gheddafi nello scacchiere mediterraneo».
La stagione dei dirottamenti aerei tocca il suo apice nel settembre 1970 con un piano che prevede il dirottamento contemporaneo di quattro aerei civili occidentali.
«Il Fplp organizza un’impresa ‘spettacolare’, conducendo gli aerei sequestrati su una pista del vecchio aeroporto militare di Dawson’s field (o Zarqa), nel deserto giordano, dove all’epoca i palestinesi facevano base. Solo due dirottamenti riescono. Uno fallisce per una questione tecnica (il Boeing rischierebbe l’incolumità di tutte le persone a bordo atterrando in una pista inadeguata per un velivolo di tali dimensioni) e il commando decide di ripiegare sull’aeroporto del Cairo, dove gli ostaggi vengono liberati per non creare problemi a Nasser. Il quarto dirottamento, invece, fallisce. Viene sventato perché si tratta di un aereo israeliano già munito di strumenti di difesa. Il personale a bordo è armato, riesce ad uccidere uno dei dirottatori e ad arrestare Leila Khaled, personaggio leggendario e popolare del Fplp, che viene ricondotta a Londra e consegnata alle autorità britanniche. Verrà sequestrato anche un quinto aereo sicché sulla pista giordana alla fine si raduneranno tre mezzi. Il mondo è sotto shock. Per la prima volta l’opinione pubblica interazionale si dovette confrontare con la questione palestinese. La trattativa, seguita da tutti i media del pianeta, giunge a una positiva definizione perché le autorità britanniche e svizzere, competenti per gli aerei dirottati, accettano di liberare i detenuti palestinesi in cambio della liberazione degli ostaggi. Israele protesta inutilmente. La stessa Khaled verrà liberata e pochi giorni dopo viene avvistata in prima fila al funerale di Nasser. Il leader egiziano deceduto improvvisamente».
La morte del Presidente della Repubblica egiziana rappresenta un fatto di straordinaria importanza nello scenario del Medio Oriente perché anche nei giorni del sequestro degli aerei le nazioni arabe si riunirono al Cairo attorno alla sua figura per discutere sull’appoggio ai palestinesi nella loro battaglia.
«Il dirottamento in contemporanea creò un vero e proprio terremoto anche all’interno del mondo arabo, innescando un clima teso tra i paesi progressisti e quelli più moderati. L’incontro dei capi di stato al Cairo si rivelerà molto agitato. A Nasser, carismatico leader del panarabismo, succederà Answar al-Sadat, un personaggio inizialmente sottostimato a livello internazionale, che si rivelerà invece il nuovo e assoluto protagonista dello scontro interno al mondo arabo. Nel 1980, Sadat assumerà un ruolo cruciale nello scenario di crisi che si sviluppa nello scacchiere Mediterraneo, anche se nel dibattito attuale viene ‘curiosamente’ dimenticato. Altra conseguenza importante della crisi del 1970 è la decisione di Re Hussein di Giordania di allontanare con la forza i combattenti palestinesi dal suo territorio. Il Monarca giunse alla decisione estrema sia perché l’immagine internazionale della Giordania era rimasta gravemente danneggiata dallo spettacolo surreale di Zarqa, sia perché la forza dei combattenti palestinesi radicati nel territorio giordano si era talmente estesa da minare anche la stabilità del suo regime. Dall’intervento sanguinoso dell’esercito, che costrinse i palestinesi ad abbandonare la Giordania, nascerà il ‘settembre nero’. L’esodo palestinese, peraltro, sarà alla base di un ulteriore motivo di conflittualità all’interno del mondo arabo. Esso determinerà il trasferimento sempre più intenso dei profughi e dei gruppi armati palestinesi in Libano, che da quel momento diventerà la sede privilegiata dei fedayn. Saranno così sconvolti gli equilibri delicatissimi del Paese dei cedri, una piccola repubblica da sempre alle prese con la difficile convivenza tra mussulmani e cristiani. Si crearono le premesse per quella che, a partire dalla metà degli anni ’70, sarà una devastante guerra civile. Ma a covare tra le ceneri dell’estate 1970 c’era anche altro. Il rapporto problematico tra Gheddafi e Sadat, destinato a generare gravi conseguenze anche nel rapporto Est-Ovest».
Fabio Meloni
(1ª puntata)
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