L’imminente anniversario della strage alla stazione di Bologna (2 agosto 1980), che causò 85 morti e oltre 200 feriti, rilancia i troppi misteri di una delle pagine più tristi della storia d’Italia, caratterizzata anche da due vicende che ‘profumano’ di Sardegna: il caso di Maria Fresu, vittima ‘senza corpo’ dell’esplosione che fa ipotizzare la presenza di una possibile ottantaseiesima vittima ed intuire uno scenario con depistaggio, e il ritrovamento tra le macerie del passaporto di un professore di Aritzo, Salvatore Muggironi, contiguo all’area della sinistra extraparlamentare, rimasto senza alcuna spiegazione verosimile e caratterizzato da una frettolosa archiviazione.
Di entrambi i ‘misteri sardi’, admaioramedia.it si è occupato negli scorsi anni con approfondimenti e rivelazioni di chi da anni si occupa dell’inchiesta sulla strage, confutando la comoda verità processuale. Torniamo sul tema con un’intervista, in quattro puntate (questa è la quarta e ultima), a Valerio Cutonilli, avvocato romano, autore dei volumi “I segreti di Bologna“, scritto a quattro mani con l’ex giudice Rosario Priore, e “La strage di Bologna tra ricostruzione giudiziaria e verità storica“. (fm)
Dopo aver raccontato che per i magistrati bolognesi la ricostruzione giudiziaria non può essere messa in discussione, quale fosse lo scenario internazionale prima dell’esplosione, con le implicazioni dovute al “lodo Moro”, e i troppi ‘omissis’ delle Istituzioni nei giorni che precedono la strage, arriviamo alla mattina del 2 agosto 1980: l’esplosione, ormai attesa, devasta la stazione ferroviaria di Bologna.
«Rinvenuto il cratere, al confine tra la sala di attesa di seconda classe il primo binario, che dimostra la detonazione di una bomba ma non le cause della detonazione, nascono istantaneamente le due incontestabili certezze destinate poi a diventare la verità giudiziaria. È un attentato ed è un attentato fascista. Lo stesso 2 agosto 1980 il Questore di Bologna invia un fonogramma ai colleghi di tutta Italia chiedendo informazioni sull’estrema destra. Il giorno dopo nasce ufficialmente l’inchiesta e per i magistrati l’unica pista valida è quella fascista. Affermazione a cui poi un autorevole quotidiano come “Repubblica” dedicherà la prima pagina dell’edizione del 4 agosto 1980. Lo stesso giorno il premier Cossiga riferisce alla Camera. Spiega che, pur in assenza d’indizi, si tratta di una strage nera».
Possibile che agli atti della prima inchiesta sulla strage di Bologna non vi sia alcuna traccia degli allarmi lanciati dall’Ucigos e dal Capo della Polizia?
«Più che possibile, comprovato. Il nulla assoluto. A partire dal 6 agosto 1980, inizia piuttosto a tenere banco la narrazione di Presilio Vettore. La pista dell’Fplp – documentata da atti a uso rigorosamente interno perlomeno di Sismi, Ucigos e Polizia – viene deliberatamente nascosta dalle nostre istituzioni. E lo resterà per i successivi 25 anni, sino a quando Pelizzaro riesce a scoprirla. Abbiamo il dovere di ricordarlo, senza timore di guadagnarci l’astio di taluni. La pista più che evidente della strage di Bologna viene deliberatamente nascosta perché chi comanda non intende rivelare un affare di Stato all’opinione pubblica. Perché nessuno è disposto ad ammettere che i nostri apparati di prevenzione erano pienamente al corrente di quanto stava per accadere. Perché nessuno tiene a spiegare perché non si sia riuscito a impedirlo. Perché nessuno, davanti a quella carneficina, sente il pudore di confessare che il transito di terroristi che trasportano esplosivo a bordo dei treni è stato consentito dai nostri governi per molti anni. E perché nessuno, anche volendo, potrebbe rivelare alla gente comune cosa e perché sta accadendo in quelle ore nell’area compresa tra Malta, l’Egitto e la Libia».
I fedayn spariscono nel nulla?
«Decisamente no. Sono proprio loro a organizzare il depistaggio dell’inchiesta sulla strage di Bologna. Fatto ormai provato e che chiude abbondantemente il cerchio. Ma che i magistrati hanno liquidato come una mera operazione di propaganda, volta a danneggiare le fazioni nemiche della destra libanese cristiano-maronita. Una spiegazione inverosimile. A inquinare le indagini bolognesi, con l’aiuto degli amici del Sismi, è Abu Ayad in persona. L’uomo che tira le file dell’intelligence dell’intera Olp, Fplp incluso. Il leader palestinese che pur facendo parte di Al Fatah è parte dell’asse marxista interno alla resistenza palestinese. E che, soprattutto, rifornisce le Br e gli altri gruppi terroristi europei di armi ed esplosivi, nell’ottica di quella guerra ‘surrogata’ di cui l’Fplp è la punta più avanzata. Il 19 settembre 1980, attraverso un quotidiano svizzero, Ayad confeziona la falsa pista degli immancabili neofascisti italiani addestrati in Libano nei campi cristiano-maroniti. L’inganno riesce perfettamente perché i magistrati bolognesi indagheranno a lungo su questo versante, salvo poi scoprire il depistaggio. Depistaggio perfettamente identico a quello, organizzato negli stessi giorni e sempre in Libano, che consente ad Ayad e agli amici del Sismi d’inquinare la nascente inchieste sulla sparizione a Beirut dei giornalisti Maria Grazia De Palo e Italo Toni. Inchiesta che verrà paralizzata dal segreto di Stato. Strumento necessario per garantire l’impunità dei responsabili, ma non sufficiente per celare la matrice palestinese degli omicidi. De Palo e Toni, infatti, sono spariti nella zona occidentale della città, in mano ai fedayn. Ma c’è un particolare del depistaggio sulla strage di Bologna, che si continua a ignorare, così evidente da poter quadrare il cerchio anche agli occhi dei lettori più ostili».
Quale?
«Ayad rilascia l’intervista depistante il 19 settembre 1980. La strage di Monaco, in Germania Ovest, avviene il 26 settembre 1980. Sette giorni dopo. Fate attenzione alle date. Nell’intervista Ayad accusa i neonazisti tedeschi del gruppo Hoffmann, asseriti complici dei neofascisti italiani responsabili della strage di Bologna. A suo dire, i militanti del gruppo Hoffmann sarebbero stati addestrati nei campi della destra cristiano-maronita e in seguito sequestrati dai fedayn. In seguito però si scopre, la notizia è assolutamente certa, che in realtà il gruppo Hoffmann è stato addestrato nei campi dei palestinesi, essendo invece ostile ai cristiano-maroniti. Bisogna quindi chiedersi perché Ayad accusa una organizzazione così amica dei fedayn da trovare ospitalità nelle sue basi. Il perché è presto detto. Il 26 settembre 1980, sette giorni dopo l’intervista in cui Ayad accusa il gruppo Hoffmann spacciandolo per nemico, esplode la bomba a Monaco. Altre 13 vittime. Una di queste, poi identificata come il trasportatore della bomba, è guarda caso un militante del gruppo Hoffmann. Le alternative quindi sono due: Ayad è la reincarnazione di Nostradamus, ma ho i miei dubbi, oppure la matrice di queste due stragi va individuata nell’oltranzismo palestinese».
Però nessuno si accorge di coincidenze temporali così gravi.
«Non proprio. La Stasi – la formidabile organizzazione di sicurezza e spionaggio della Germania Est – è da subito pienamente consapevole dell’identità dello schema depistante che Ayad sta applicando non solo a Bologna e a Monaco, ma anche a Parigi. Città nella quale il 3 ottobre 1980 termina la campagna terroristica contro l’Europa democratica. La Stasi – fiore all’occhiello dell’intelligence comunista, dunque non proprio una centrale di manutengoli della loggia P2 – assegna anche la terza e ultima strage del 1980 all’Fplp. A spiegarcelo è Gianluca Falanga, il maggiore esperto italiano degli archivi della Stasi, un ricercatore particolarmente rigoroso e molto lontano dal mondo della destra. La Stasi inoltre sa che Thomas Kram, un terrorista della Germania Ovest, presente a Bologna nelle ore della strage, è un membro dell’Ori. Il gruppo stragista guidato da Carlos lo Sciacallo».
Anche questa presenza è rimasta sconosciuta per 25 anni.
«Assolutamente sì e anche questo non è normale affatto. A scoprire il transito di Kram a Bologna, e a rivelarlo all’opinione pubblica, è stato ancora una volta Pelizzaro. Le nostre istituzioni hanno preferito tacere a lungo. Come prevedibile, l’indagine bolognese a suo carico – giunta quando le sentenze di condanna nei confronti di Fioravanti, Mambro e Ciavardini erano ormai definitive – è stata archiviata. Ma le motivazioni di tale archiviazione non sono per nulla rassicuranti. Persino i magistrati bolognesi hanno ritenuto ingiustificata la presenza in città di Kram, terrorista esperto di esplosivi, e tale da motivare un grumo di sospetto nei suoi confronti. Elemento non sufficiente però a ritenerlo coinvolto nell’attentato – anche per via del fatto che in albergo si registra senza occultare la propria identità – a causa delle molteplici possibili inferenze ascrivibili alla sua ingiustificata presenza. Inferenze, non meglio specificate, che invece non hanno ostacolato il rinvio a giudizio di Paolo Bellini, la cui presenza a Bologna peraltro deve essere verificata in dibattimento. Giova evidenziare come Kram neghi in modo risoluto di aver militato nell’Ori. Eppure compare nell’organigramma stilato dagli apparati di sicurezza di due diversi paesi del Patto di Varsavia. Regimi totalitari che ospitano basi dell’Ori e che controllano ogni spostamento degli uomini di Carlos lo Sciacallo. La già menzionata Germania Est e l’Ungheria. Gabriele Paradisi, un altro formidabile ricercatore, ha scoperto i movimenti di Kram nei giorni successivi alla strage di Bologna: il 5 agosto 1980 cerca di entrare a Berlino Est».
Il 2 agosto 1980 sono state provate altre presente sospette a Bologna?
«Sì. Per un ironico caso del destino, o per ragioni di altro genere, si tratta sempre di elementi non riconducibili all’eversione nera. Emblematico è il caso di Francesco Marra, ritenuto dai magistrati bolognesi neppure meritevole di una indagine. In un processo milanese, Alberto Franceschini e altri due ex terroristi hanno dichiarato la militanza di Marra nelle Br e addirittura la sua partecipazione al sequestro del giudice Sossi nel 1974. Franceschini ha anche avanzato il sospetto, a oggi privo di riscontri, di un legame di Marra con le Istituzioni. Si sarebbe trattato a suo parere di un infiltrato. Anche se, a dire il vero, la questura di Milano nel 1980 non sembra fornire coperture a Marra. Anzi, lo indica ai magistrati bolognesi come un sospetto terrorista in contatto con un elemento della estrema sinistra, poi risultato molto vicino alla causa palestinese. Fatto sta che l’autorità giudiziaria resta tuttora indifferente alla presenza di Marra a Bologna la mattina della strage. E al passaporto spuntato tra le macerie della stazione ferroviaria».
Iniziamo a parlare di Sardegna.
«Grazie a una interrogazione parlamentare del 2015, sappiamo che dalle macerie della stazione ferroviaria di Bologna è riemerso un passaporto e, a dieci giorni di distanza dall’esplosione, il proprietario (un giovane professore sardo) non ha ancora denunciato il furto o lo smarrimento. Si attiva solo quando le autorità glielo riconsegnano, in modo talmente discreto peraltro da non pretendere neppure chiarimenti. A insospettirsi è invece un povero sottufficiale dei carabinieri, in servizio in un paesino sperduto della Barbagia. Il professore infatti, secondo le schedature dell’Arma, è membro di un piccolo gruppo dell’indipendentismo sardo, legato all’estrema sinistra, che annovera tra le sue fila elementi d’interesse investigativo. Si tratta di due giovani che, quattro anni prima, sono stati arrestati in Olanda, a bordo di un treno diretto alla stazione ferroviaria di Amsterdam, mentre trasportavano esplosivo e documenti con riferimenti al terrorismo palestinese. Le spiegazioni fornite dal professore, per giustificare il ritrovamento del passaporto nelle macerie della stazione, verranno ritenute tutte false. Nel 1983 gli investigatori però riterranno irrilevante la questione. E neppure ipotizzabile un furto d’identità. Il giovane, a loro avviso, si sarebbe recato a Bologna per sue questioni private che però avrebbe preferito tenere nascoste. Gli investigatori concludono che, addirittura, l’indagine è solo il frutto di un equivoco. E il treno diretto ad Amsterdam con i compagni del professore che trasportano esplosivo una circostanza irrilevante. Il passaporto, del resto, privo di polvere al momento del ritrovamento, non sarebbe stato smarrito dentro la stazione. Spiegazione sbalorditiva che purtroppo viene sconfessata dagli altri atti contenuti nei fascicoli istruttori. Tra le macerie, infatti, la Polizia ferroviaria ritrova anche la valigia contenente il tesserino universitario del professore. Che ovviamente riconosce come sua».
Terroristi ingiustificatamente presenti a Bologna. Un passaporto che spunta tra le macerie.
«L’interpellanza parlamentare sul passaporto che cammina da solo ha rappresentato per noi una seconda svolta. Nel 2015, infatti, sto affiancando Priore nella stesura del libro “I segreti di Bologna”. Insieme riflettiamo sul testamento lasciato da Cossiga. Matrice mediorientale ed esplosione prematura. Ragioniamo sul fatto che la presenza in città dei terroristi è ingiustificata. Ma anche sul fatto che essi non avvertono alcuna necessità di occultare la loro presenza a Bologna, registrandosi in albergo con la propria identità. Evidentemente ignari di quello che sarebbe accaduto la mattina successiva. Poi leggiamo la testimonianza del ferroviere che, la sera dell’1 agosto 1980, vede una persona nascondersi dietro il colonnato per fotografare qualcuno appena uscito dalla stazione ferroviaria. Infine, scopriamo l’incredibile storia del passaporto che spunta dalle macerie. Ci rendiamo conto della necessità di approfondire finalmente la dinamica della strage e la scena del crimine. E una notte, mentre cerco invano di prendere sonno, mi torna in mente un colloquio che avevo completamente dimenticato».
Interessante…
«Nel 2007 ho scritto un primo libro sulla strage di Bologna, completamente incentrato sui processi ai Nar. E in cui indico i motivi che m’inducono a ritenerli estranei ai fatti. Allora davo per scontato, come tutti, l’assenza di misteri nella dinamica della strage di Bologna. Credevo alla storia della valigia di 25 chili collocata sul tavolinetto della sala d’attesa. Nel libro cito di sfuggita il caso straziante di Maria Fresu, la vittima assolutamente innocente che da sempre le cronache davano per disintegrata nell’esplosione. Il padre di un mio amico fraterno, illustre docente universitario di chimica, mi chiede una copia. Legge e resta colpito proprio da quell’accenno alla disintegrazione della povera donna, sia per gli aspetti umani che per quelli strettamente scientifici. Mi spiega che la disintegrazione di un cadavere è teoricamente possibile. Ma richiede una serie di condizioni concomitanti tali da costituire un evento del tutto insolito, improbabile a suo avviso nel caso della strage di Bologna. Per anni non do alcuna importanza a quelle parole. Che mi tornano in mente però quando iniziamo a ragionare sulla scena del crimine. Passo la notte a leggere le perizie, la dichiarazione dell’amica della povera Fresu, sopravvissuta all’esplosione. Il giorno dopo incontro Priore che condivide le mie perplessità. I conti non tornano».
L’esame delle perizie diventa fondamentale.
«I periti giudiziari spiegano nelle loro relazioni che solo una piccola parte delle 85 vittime, quelle più vicine alla bomba, sono perite a causa degli effetti diretti dell’esplosione. La maggior parte dei decessi è dovuta invece agli effetti indiretti della detonazione: collisione con corpi contundenti, ma soprattutto il crollo del fabbricato. E infatti sia la piccola Angela Fresu, figlia della donna scomparsa, sia un’altra compagna di viaggio, sono morte a causa dei traumi riportati. L’altra amica, come detto, è addirittura sopravvissuta, dichiarando alla Polizia ferroviaria – ai magistrati non è mai interessato sentirla – che Maria Fresu era vicino a lei al momento dell’esplosione. La disintegrazione, quindi, data per scontata da tutti, era ed è una spiegazione assolutamente impossibile. Pura fantascienza. Iniziamo a chiederci quindi perché manca all’appello una vittima sicuramente, e ripeto sicuramente, innocente, morta assieme alla sua bimba di tre anni. Consultiamo in modo informale alcuni esperti di esplosivistica. Questi, esaminati gli atti dell’istruttoria bolognese, restano perplessi e quasi spaventati. Nessuna disintegrazione di cadavere è possibile, neppure immaginando una maggiore vicinanza della Fresu alla bomba. Ma le sorprese non finiscono qui. Recuperiamo anche la perizia medico-legale con cui è stato identificato ciò che restava della donna. Una perizia che per oltre 30 anni ha consentito di assegnare una proprietaria alla maschera facciale rinvenuta tra le macerie della stazione ferroviaria. Consentendo di limitare a 85 le vittime della strage di Bologna. La maschera facciale viene consegnata da un trasportatore, che durante i primi soccorsi fa la spola tra la scena del crimine e l’obitorio, a una giovane e incorruttibile dottoressa. Troviamo anche la fotografia della maschera facciale, quasi interamente integra. Qualcosa di raccapricciante. Uno degli esperti di esplosivistica ci spiega che si tratta di uno ‘scalpo’. Termine che viene usato per descrivere un fenomeno molto particolare. Quando la vittima si trova accanto alla bomba, l’onda di sovrappressione generata dalla detonazione penetra lateralmente il cadavere, attraverso l’orecchio, provocando la violenza espulsione della maschera facciale. Che per tale motivo, a differenza del braccio interessato, non viene esposta alle ustioni generate dall’esplosione. Nel 2016 esce il nostro libro che si conclude proprio con le nostre riflessioni sull’impossibilità della disintegrazione del cadavere mancante. Dichiariamo apertamente i nostri dubbi sull’integrità della scena del crimine».
Dubbi che scatenano reazioni di vario genere.
«Inizialmente qualcosa di sgradevole. Siamo subito attaccati da alcuni ex terroristi di sinistra che ci accusano di raccontare una favoletta. Altri poi ci scrivono che non siamo persone gradite nella città di Bologna. Qualcuno, infine, ci promette conseguenze penali. Ma i nostri dubbi trovano anche ampia considerazione. A prenderci sul serio, per esempio, è Silvio Leoni, un giornalista investigativo che ha fornito in silenzio un enorme contributo alla ricerca della verità. Ci segue anche Enzo Raisi, l’ex parlamentare bolognese che per primo ha posto pubblicamente la questione dell’esplosione prematura e della manomissione della scena del crimine. Dopo aver scoperto una strana vicenda avvenuta presso l’obitorio di Bologna nei giorni successivi alla strage. Infine, ad attivarsi è Gianmarco Chiocci, un giornalista con un fiuto investigativo fuori dal comune. Chiocci nota un’ulteriore stranezza. Il perito medico-legale del 1980, infatti, ha attribuito la maschera facciale alla povera Fresu, nonostante l’accertata incompatibilità del gruppo sanguigno. Per questo motivo intervista il professor Arcudi, uno dei massimi esperti in Italia di ematologia. Vuole approfondire la questione della “secrezione paradossa”, ovvero il principio scientifico – taluni individui avrebbero nei liquidi tracce di un gruppo sanguigno diverso da quello di appartenenza – usato per motivare l’attribuzione della maschera facciale alla donna scomparsa. Arcudi tuona contro la “secrezione paradossa”, spiegando che si tratta di una teoria fantasiosa risalente addirittura agli anni ’50, ripudiata dalla comunità scientifica già prima del 1980. La scienza, quindi, non è disposta ad accettare la ricostruzione giudiziaria della strage di Bologna. Su una questione, peraltro, semplicemente cruciale. Nella perizia medico-legale del 1980, infatti, si scrive chiaramente che la maschera facciale non può essere assegnata a nessuna delle altre vittime censite della strage di Bologna: appartiene alla Fresu oppure a una vittima numero 86. Mai identificata, mai reclamata, e così vicina alla valigia con la bomba da avercela proprio a fianco».
La questione torna d’attualità durante le operazioni peritali del processo a Gilberto Cavallini.
«Le ipotesi formulate in un libro diventano a sorpresa prove processuali. A oggi però non tenute in considerazione. I periti esplosivistici della Corte d’Assise prestano da subito particolare attenzione allo ‘scalpo’. Essendo, come loro stessi lo definiscono nella perizia di giugno 2019, il reperto in assoluto più vicino alla bomba, ne ottengono la riesumazione per studiare le tracce di esplosivo che le sue parti, nel frattempo, decomposte, continuano a conservare. Ciò li aiuterà a individuare l’esplosivo detonato a Bologna. Non il gelatinato commerciale indicato nelle perizie precedenti. Ma un esplosivo militare ottenuto tramite il recupero di bombe risalenti alla seconda guerra mondiale. Anche il peso della valigia viene fortemente ridimensionato. Circa la metà dei 20-25 chili asseriti nelle perizie precedenti. I nuovi periti spiegano anche che il collocamento sopra il tavolinetto è solo un’ipotesi del passato, non essendovi alcuna prova a riguardo. Lecito chiedersi quindi la ubicazione esatta della valigia in transito. E come è avvenuta realmente la detonazione. Atteso che gli stessi periti concludono affermando che l’esplosione prematura non può essere esclusa. Anche perché è stato trovato un reperto, la cui presenza tra le macerie viene ritenuta ingiustificata, che potrebbe essere la sicura di trasporto usata dai terroristi che trasportavano l’esplosivo. Un interruttore di sicurezza, necessario a evitare l’esplosione prematura, ritenuto però difettoso. Ma la novità più sconvolgente è un’altra. I periti della Corte d’Assise dichiarano ufficialmente l’impossibilità della disintegrazione del cadavere. La escludono anche immaginando la vittima molto vicina alla bomba. E la escludono anche ipotizzando il doppio dell’esplosivo detonato a Bologna. Nessuno però si azzarda a trarre le conclusioni. Il cadavere della Fresu è scomparso e non esiste una motivazione scientifica in grado di giustificarne l’assenza. La scena del crimine non è integra. Manca all’appello un cadavere innocente. E c’è un volto di donna in più».
Diventa fondamentale l’esame del Dna.
«Sì, nel 2019 è stato condotto l’esame del Dna sui residui della maschera facciale, grazie alla comparazione con quello dei fratelli della povera Fresu. L’esito è stato clamoroso, perlomeno per chi ha creduto per 39 anni alla fiaba della “secrezione paradossa”. La maschera facciale non appartiene alla vittima scomparsa nel nulla. Qualcuno si è illuso di poter arrivare alla verità».
A quanto pare, finora, si è proprio illuso.
«Purtroppo sì. Per l’ennesima volta la ricostruzione alternativa ha trovato la via legale sbarrata. Dopo l’estate del 2019, gli stessi periti hanno fatto una parziale marcia indietro. La manomissione della scena del crimine, tesa a occultare l’esplosione prematura, costituisce una eventualità che non può essere messa in discussione. I poveri medici del 1980, la vera eccellenza bolognese, sono stati accusati in sostanza di aver sparpagliato i resti della Fresu – non disintegrata ma sicuramente depezzata – nelle altre bare. Cranio compreso, evidentemente. Ma per motivi non meglio specificati è impossibile ormai fare verifiche. La difesa ha quindi chiesto di ascoltare in contraddittorio l’amica sopravvissuta della Fresu, considerato che le sue dichiarazioni sconfessano l’ipotesi suppletoria del depezzamento. I periti hanno deciso ‘a tavolino’ che i ricordi dell’amica sono sicuramente sbagliati e la Corte non ha accolto l’istanza della difesa. Niente testimonianza. Anche lo ‘scalpo’ è stato rimesso in discussione. Potrebbe appartenere in realtà ad altre vittime censite. Ma l’esame comparativo del Dna coi loro familiari non verrà effettuato. Anche la particolare vicinanza della misteriosa proprietaria dello ‘scalpo’ viene ora revocata in dubbio. Non è detto che sia stata l’onda di sovrappressione a provocare l’espulsione della maschera facciale. Forse è stato un corpo contundente. Talmente affilato, si deve immaginare, da sezionare chirurgicamente un volto anziché deturparlo. Ovviamente i grandi media hanno ignorato tali evidenze. E l’opinione pubblica, infine, si è limitata ad avere notizia della condanna di Cavallini e degli sviluppi dei nuovi processi. Fine della storia. Perlomeno di quella giudiziaria».
Bisogna arrendersi alla verità giudiziaria?
«Oppure continuare a studiare. Ad esempio, gli atti delle istruttorie francesi sulle stragi compiute dall’Ori, a bordo dei treni o in qualche stazione ferroviaria. C’è una città che funge da logistica. E da lì che parte l’attacco. Il punto d’incontro di tre diversi corrieri, preferibilmente ma non esclusivamente donne. Un primo corriere trasporta la valigia con il timer, il detonatore e la miccia detonante (composta di Pentrite). Tale contenuto è già pericoloso per il trasportatore. Ma la valigia ha un buco al centro. Dove sarà posizionato l’esplosivo. Nel 1982, proprio Priore da giudice istruttore ordina l’arresto di Christa Margot Froelich, una terrorista dell’Ori in transito da Fiumicino verso la Francia a cui viene sequestrata una valigia. Dalle fotografie della polizia scientifica si capisce che è confezionata proprio in tale modo. C’è poi un secondo corriere che trasporta l’esplosivo, prudenzialmente lontano da timer, detonatore e miccia detonante. Infine, c’è un terzo compagno che viaggia senza bagaglio. Uno che di esplosivi se ne intende. È quello che deve collocare l’esplosivo nella prima valigia e quindi confezionare la bomba. Bomba che il trasportatore – incauto, ignaro o sacrificato dai committenti – dovrà abbandonare nel reale obiettivo. A meno che la bomba, ormai sensibile a qualsiasi interferenza, non esploda in modo prematuro».
Siamo giunti alle amare conclusioni.
«Alla via giudiziale, come più volte ripetuto, non credo più da tempo. Però, in conclusione, ritengo sia utile ricordare quanto ha dichiarato, a processo finito, proprio l’autore della perizia disposta dalla Corte d’Assise di Bologna che nel 2019, per pochi attimi, ha riacceso le speranze di molti. Il 31 luglio 2020, in un’intervista all’Adnkronos, Danilo Coppe ha rilasciato le seguenti dichiarazioni: “Tutti sembrano ormai convinti che l’esplosivo utilizzato sia quello che abbiamo individuato noi, il Compound B usato negli armamenti angloamericani, e non quello che era stato individuato 40 anni fa, il che ha modificato le quantità e dunque anche il volume e il peso che si doveva portare dietro chi ha trasportato il materiale in stazione… quel tempo si era presa una direzione, quella della gelatina da cava e del messaggio contenuto in quell’attentato, e non si sono cercate altre piste, trascurate e poi emerse… La sciocchezza che si faceva in quegli anni, infatti, era quella di portarsi dietro un ordigno che contenesse già tutto, vale a dire l’innesco, la carica, la sorgente di energia per attivare l’innesco e questo non esclude l’ipotesi di un’accensione accidentale, visto che il calore rende più sensibile proprio l’innesco… per sgombrare ogni dubbio e tacitare oppure confermare l’ipotesi della 86esima vittima, occorrerebbe cercare i discendenti delle tre donne che erano state trovate senza faccia ed effettuare l’esame del Dna, visto che ora si ha il Dna della faccia che fino a un anno fa era ritenuta di Maria Fresu, ma che poi è stato stabilito non lo fosse”. La maschera facciale appartiene a una donna misteriosa. Ma di cui conosciamo il Dna. Lo stesso dei suoi familiari».
Fabio Meloni
(4ª e ultima puntata – La 1ª puntata, “Per i magistrati bolognesi la ricostruzione giudiziaria non può essere messa in discussione”, la 2ª puntata, “Lo scenario internazionale e il ‘lodo Moro’ sullo sfondo dell’esplosione alla Stazione”, e la 3ª puntata, “I troppi ‘omissis’ delle Istituzioni nei giorni che precedono la strage”, sono state pubblicate il 30, 31 luglio e il il 1 agosto 2021)
(admaioramedia.it)