L’imminente anniversario della strage alla stazione di Bologna (2 agosto 1980), che causò 85 morti e oltre 200 feriti, rilancia i troppi misteri di una delle pagine più tristi della storia d’Italia, caratterizzata anche da due vicende che ‘profumano’ di Sardegna: il caso di Maria Fresu, vittima ‘senza corpo’ dell’esplosione che fa ipotizzare la presenza di una possibile ottantaseiesima vittima ed intuire uno scenario con depistaggio, e il ritrovamento tra le macerie del passaporto di un professore di Aritzo, Salvatore Muggironi, contiguo all’area della sinistra extraparlamentare, rimasto senza alcuna spiegazione verosimile e caratterizzato da una frettolosa archiviazione.
Di entrambi i ‘misteri sardi’, admaioramedia.it si è occupato negli scorsi anni con approfondimenti e rivelazioni di chi da anni si occupa dell’inchiesta sulla strage, confutando la comoda verità processuale. Torniamo sul tema con un’intervista, in quattro puntate (questa è la seconda), a Valerio Cutonilli, avvocato romano, autore dei volumi “I segreti di Bologna“, scritto a quattro mani con l’ex giudice Rosario Priore, e “La strage di Bologna tra ricostruzione giudiziaria e verità storica“. (fm)
Nella prima puntata dell’intervista è stata citata la probabile esistenza di documenti del Sismi risalenti al 1980, tuttora secretati, da cui si evincerebbe la responsabilità dell’Ori, il gruppo terroristico internazionale guidato da Carlos lo sciacallo, nell’esplosione alla stazione ferroviaria di Bologna. Un’affermazione molto forte che però andrebbe spiegata nei particolari. Da dove iniziamo?
«Dalla fine. Durante le operazioni peritali del processo di primo grado a Gilberto Cavallini è avvenuto un fatto completamente inatteso. La condanna sembrava sin dal principio un esito scontato. Cavallini infatti è accusato di aver fornito, nei primi giorni dell’agosto 1980, aiuto e logistica ai suoi sodali dei Nar Fioravanti, Mambro e Ciavardini. Cavallini tale supporto lo dichiara apertamente da oltre 30 anni, sostenendo tuttavia che esso non ha nulla a che vedere con la strage di Bologna. Ma i tre suddetti ex terroristi neri sono stati condannati in via definitiva in quanto ritenuti corresponsabili dell’attentato. Per l’accusa, quindi, il sostegno fornito loro da Cavallini rappresenta un contributo causale all’attentato medesimo, ciò significando la responsabilità penale anche di quest’ultimo terrorista. Cavallini, quindi, per essere assolto avrebbe dovuto dimostrare non solo la sua estraneità alla strage ma ancor prima quella di tre persone già condannate con sentenze passate in giudicato. Dunque, la sua assoluzione avrebbe comportato il completo fallimento di 41 anni di processi. Per tale motivo il dibattimento non sembrava destare particolare interesse. E invece, all’esito delle operazioni peritali è arrivato un colpo di scena. Sgradito a taluni. Da una parte, come vedremo in seguito, è risultata evidente, perlomeno a chi ha strumenti per valutare in modo autonomo le risultanze peritali, la non integrità della scena del crimine. Dall’altra gli stessi consulenti della Corte d’Assise, chiamati a ricostruire la dinamica della strage, nella relazione peritale del giugno 2019 hanno scritto esplicitamente che non si può escludere un’esplosione prematura».
Quindi l’attentato dinamitardo, ideato e perfettamente eseguito, è stato messo in dubbio dagli stessi periti della Corte d’Assise?
«Esattamente, anche se nessuno lo dice. La Corte d’Assise si è poi smarcata da tali conclusioni, pur non potendo allegare nella sentenza di condanna motivazioni in grado di fugare il dubbio dichiarato dai propri periti esplosivistici con argomentazioni strettamente tecniche. E qui si ritorna ai limiti oggettivi della verità giudiziaria che ho evidenziato in precedenza. A parlare di un’esplosione prematura, ovvero di una bomba che i trasportatori ritenevano destinata a un altro obiettivo, ha parlato prima di morire Francesco Cossiga. Il premier in carica nel 1980. Il capo del governo che, a macerie della stazione di Bologna ancora fumanti, già accusa pubblicamente l’estrema destra. Salvo chiedere scusa molti anni dopo, a muro di Berlino crollato. Per ammettere infine di aver appreso della matrice mediorientale della strage – dovuta appunto all’esplosione prematura della bomba in transito verso il reale obiettivo – a poche ore dal fatto, all’interno della Prefettura di Bologna. Ovviamente le dichiarazioni senza riscontri, anche se rese da un presidente della Repubblica emerito, dimostrano poco, anzi nulla. Ma i dubbi sulla reale dinamica della strage, oggi certificati per iscritto dai consulenti di fiducia dei giudici, all’esito di accurate operazioni peritali, impongono a mio avviso una valutazione meno frettolosa del testamento lasciato da Cossiga. Matrice mediorientale ed esplosione prematura. Oggi sappiamo che lo statista sardo non ha parlato a caso. A questo punto, però, credo sia opportuno riavvolgere il nastro e partire effettivamente dall’inizio. Ossia dal movente».
In effetti, il movente della strage di Bologna resta un mistero anche per chi sostiene la colpevolezza dei Nar. Si prospetta un quadro eversivo ampio, che va dai neofascisti alla Loggia P2, ma il movente resta sempre qualcosa di poco nitido, ricavabile solo implicitamente dalla matrice di destra dell’attentato.
«Non a caso, secondo me. Riflettiamo sull’unica ipotesi che in 41 anni si è voluta prendere in considerazione nelle aule di giustizia. La strage creerebbe sgomento nell’opinione pubblica suscitando quindi una maggiore richiesta di ordine, sentimento utile a fascisti, massoni e reazionari filoamericani. Ragionamento che a me, se posso essere sincero, appare alquanto grossolano. Ma che soprattutto s’infrange contro la realtà dei fatti. Nell’agosto 1980 l’opinione pubblica sgomenta non invoca alcuna soluzione di destra. Manifesta al contrario, come inevitabile, un generale disprezzo per i neofascisti che da governo, magistrati e media vengono immediatamente indicati come gli autori del massacro di 85 innocenti. Non solo. Un attentato finalizzato a manipolare l’opinione pubblica, per orientarla nella propria direzione, non può essere realizzato il 2 agosto, con le città italiane ormai deserte per via delle ferie. Ricordiamo che le mobilitazioni di piazza sono risultate fortemente limitate, praticamente nulle al di fuori di Bologna, all’esatto contrario di quello che sarebbe di sicuro accaduto in un periodo di normale attività lavorativa. Manifestazioni oceaniche, come ai tempi di piazza Fontana. Non solo. Un progetto stragista come quello prospettato sinora contempla necessariamente un dopo, soprattutto un dopo. E invece, nel caso di Bologna, c’è un vuoto operativo nel post-strage evidente anche agli occhi meno allenati. Nessuna forza politica italiana si giova della situazione causata dall’immane tragedia. Al limite, qualche modesto beneficio ne ha tratto chi, dal fronte opposto, si è proclamato vittima di un oscuro disegno reazionario perseguito a colpi di bombe. Forse, allora, bisognerebbe ragionare su uno schema completamente diverso, purtroppo sempre ben chiaro a chi pratica il terrorismo su scala internazionale. A Bologna. Come a Monaco. E come a Parigi. L’attentato senza rivendicazione rappresenta un messaggio in codice, percepibile solo dai diretti interessati. Ovvero i governi che vengono puniti per scelte sgradite. Governi che per molte ragioni non lo andranno mai a spiegare in piazza».
Chi voleva punire il Governo italiano in quell’estate del 1980? Una domanda che rende il confronto sulla strage di Bologna una questione inevitabilmente politica, suscitando polemiche così forti da dividere anche il fronte dei cosiddetti innocentisti. Un fronte accomunato dalla convinzione dell’estraneità dei Nar alla strage di Bologna, ma non sempre convinto delle ricostruzioni alternative.
«Faccio una premessa. Altrimenti non darei alcuna possibilità ai lettori di riflettere in modo distaccato sui fatti. Il terrorismo va rifiutato. A prescindere dalle idee che ispirano chi lo pratica. Va rifiutato a prescindere dalle specifiche modalità operative adottate. Va rifiutato, sia se colpisce obiettivi selezionati (come nel caso delle Br o dei Nar), sia se colpisce in modo indiscriminato (come nel caso dell’Ori). Va rifiutato perché esso si fonda in ogni caso su un metodo sbagliato, avulso dalle pretese ragioni che con esso si vorrebbero difendere. Dunque, se si vuole capire sul serio la tragedia di Bologna, bisogna rinunciare alle solite contese ideologiche o geopolitiche, dichiarate espressamente oppure celate dietro una riserva mentale. Smetterla – non solo nei social ma anche, soprattutto in sedi ben più importanti – di giocare con ogni mezzo possibile una partita che, a seconda del vero colpevole, dovrebbe far splendere in eterno le ragioni di rossi o neri, di filoisraeliani o filopalestinesi. Non si può e non si deve prendere posizione solo in base ai propri gusti politici, come troppe volte è accaduto. Perché talvolta la verità è in effetti proprio come si vorrebbe, talvolta no. Talvolta ha un volto sgradevole e poco in linea con la storia di una città. Parlo anche per me. Dopo molti anni di ricerca, sono convinto personalmente che l’azione ritorsiva promessa nel 1980 all’Italia è stata appaltata all’Ori dall’Fplp. Una organizzazione della resistenza palestinese che ha praticato il terrorismo a livello planetario. Ovviamente potrei sbagliarmi. Ma se avessi ragione, e temo proprio di averla, nulla autorizzerebbe eventuali interessati a usare le responsabilità dell’Fplp contro un intero popolo, vittima non di rado di gravi ingiustizie. Anche sull’altro fronte, del resto, è stato praticato il terrorismo. Si pensi al noto attentato del gruppo estremistico sionista Irgun e dalla banda Stern al King David Hotel di Gerusalemme, costato la vita a 91 persone. Il discorso quindi vale per tutti. Da giovane, come molti miei coetanei, sono più volte sceso in piazza per manifestare in favore della nascita di uno stato palestinese. Non me ne pento perché continuo a ritenerlo giusto. Questo però non mi consente di negare, dopo anni di ricerche condotte in modo onesto, che taluni gruppi palestinesi, come appunto l’Fplp, siano state pedine cruciali nella guerra ‘surrogata’ combattuta contro le nazioni occidentali negli anni in cui la logica di Jalta non consente conflitti diretti tra Est e Ovest».
Cosa intende per guerra “surrogata”?
«Intendo la guerra che all’epoca è stata condotta in forme non convenzionali, sia dall’Est che dall’Ovest. Non c’è mai stata una contrapposizione frontale tra le superpotenze. L’Urss non si è dimostrata affatto ostile alla nascita dello stato d’Israele. Basta rileggere l’Unità di fine anni ‘40, quotidiano di un partito all’epoca filosovietico, per capirlo. L’atteggiamento di Mosca muta solo quando si comprende che il sentimento antioccidentale che monta nel mondo arabo, dovuto al sostegno degli Usa a Tel Aviv, può giovare alla destabilizzazione del nemico. A partire dagli anni ’60 l’Urss sposa la causa palestinese, armando le fazioni oltranziste dei fedayn – al pari di altri numerosi movimenti di liberazione nazionale sparsi nel pianeta – convinta che le tensioni in Medioriente possano ritorcersi contro l’Europa democratica. Uno dei primi ad accorgersi di questa precisa strategia antieuropea, a inizio degli anni ’70, è Aldo Moro. Come dimostrano i carteggi provenienti dal Ministero degli Esteri, molto poco conosciuti, oggi conservati presso l’archivio di Stato. Ma anche in tal caso sconsiglio approcci manichei. A fine anni ’70, saranno gli Usa ad adottare una strategia perfettamente speculare, dando esecuzione alla nota teoria dell’arco di crisi. Il sostegno al fondamentalismo islamico e l’istigazione di conflitti etnico-religiosi al fine di destabilizzare la periferia dell’impero sovietico, abitata da popolazioni mussulmane. Come noto, i sovietici sono poi caduti nella trappola dell’Afghanistan. Altrettanto note, purtroppo, sono le conseguenze prodotte da tale strategia americana. La nascita del terrorismo islamico che continua ancora oggi a uccidere in Europa. I gruppi armati sostenuti dall’Urss negli anni ‘70, come l’Fplp, hanno invece una connotazione marxista-leninista o comunque laica».
Dunque, l’eterodirezione da prendere in considerazione sarebbe quella di Mosca nei confronti dell’Fplp?
«Decisamente no. Tale sostegno, oggi ampiamente documentato, non equivale a una eterodirezione. Anzi, gli agenti sovietici che gestiscono i rapporti con i fedayn sono comprensibilmente preoccupati dei metodi e di alcune iniziative assunte dall’Fplp e dalle altre fazioni oltranziste. A loro volta, la maggior parte dei dirigenti palestinesi cerca di tutelarsi dalle ingerenze sovietiche. Si tutela sapendo di non poter fare a meno degli aiuti di Mosca nella guerra contro un nemico che si giova del sostegno americano. Non è un caso se l’Fplp nasce nel 1967, all’indomani della guerra dei sei giorni. Una disfatta che consente ai palestinesi di capire che la sconfitta d’Israele non potrà mai avvenire per mano degli stati arabi. Prevale quindi una convergenza di obiettivi. All’Urss interessa la destabilizzazione dell’Europa democratica, ovvero il deterioramento dei rapporti di questa con gli stati arabi indispensabili per l’approvvigionamento energetico. All’Fplp interessa l’inserimento della questione palestinese nelle agende politiche occidentali. Per tale ragione, nel 1968 l’Fplp, seguito poi dagli altri gruppi oltranzisti, inizia ad attaccare l’Europa. Attraverso dirottamenti aerei, sabotaggi degli impianti petroliferi e attentati sanguinosi di cui si è a lungo tenuto a far perdere la memoria. Più semplice parlare di Sparti e del turista tirolese con la patente salentina».
La “guerra dei sei giorni”, il fatidico 1968, i dirottamenti aerei. Non stiamo partendo troppo da lontano?
«Ritengo sia indispensabile. Altrimenti i lettori non potrebbero capire perché il 2 agosto 1980, dopo l’esplosione di Bologna, le nostre istituzioni decidono di nascondere a magistrati e opinione pubblica la pista dell’Fplp. Pista di cui sono perfettamente a conoscenza. C’è infatti un primo fondamentale aspetto da considerare. Molti stati europei sono venuti a patti con l’Fplp, anche se non hanno molta voglia di raccontarlo. Basti ricordare i dirottamenti aerei del 1970, causa dissennata del “settembre nero” giordano. L’Fplp sequestra centinaia di passeggeri occidentali. Li conduce a Zarqa nonostante la comprensibile contrarietà di re Hussein. S’innesca una crisi mondiale. Le autorità svizzere e britanniche, spaventate, accettano i negoziati. Liberano alcuni detenuti palestinesi per riavere indietro i propri cittadini. Al Cairo si tiene un incontro molto teso sulla questione dell’Fplp tra i capi di stato arabi. Gheddafi, salito al potere da un anno, si presenta addirittura con una pistola in tasca. Pochi giorni dopo viene a mancare il leader egiziano Nasser, stroncato da un malore. Ai suoi funerali sfilerà Leila Khaled. La comandante dell’Fplp, appena restituita ai fedayn dalle autorità di Scotland Yard dopo l’arresto avvenuto durante il dirottamento fallito di un aereo dell’El Al. Quasi l’intera Europa occidentale, a prescindere dall’orientamento politico del singolo governo, scende a patti con l’Fplp e con le altre formazioni oltranziste. Dai regimi autoritari di Spagna e Grecia, a paesi come l’Austria e la Germania Ovest all’epoca guidati da partiti di sinistra. Passando per la Francia che con i fedayn instaura rapporti particolarmente stretti. Ma anche l’Italia va ben oltre qualche trattativa estemporanea».
Il famigerato “lodo Moro” di cui si parla ormai da molti anni.
«Una denominazione impropria. Perché l’accordo segreto con l’Fplp e le altre formazioni interne all’Olp – teso a consentire il libero transito di armi ed esplosivi palestinesi in Italia, a fronte dell’impegno dei fedayn a non compiere attentati nel nostro territorio – è stato voluto non solo dal Ministro degli Esteri dell’epoca ma dall’intero governo italiano. Il cui capo nel 1973, anno in cui l’intesa è stata raggiunta, è in realtà Mariano Rumor, il leader doroteo che la peggiore vulgata complottista vorrebbe complice d’improbabili trame golpiste. Tale accordo all’epoca segreto costituisce a mio avviso una delle premesse della tragedia di Bologna. Non a caso la sua esistenza, oggi ampiamente documentata e ammessa da tutti, viene negata dalla sola magistratura bolognese. A mezzo di argomentazioni manifestamente deboli. Un accordo di siffatto genere, si obietta, non sarebbe configurabile perché il nostro ordinamento prevede l’obbligatorietà dell’azione penale. Un po’ come dire che l’imputato non può aver rapinato la banca perché l’ordinamento vieta di acquisire denaro con la forza. In realtà esiste copiosa documentazione, sfuggita alle maglie della secretazione, che attesta in modo inequivocabile l’esistenza del “lodo”. “Lodo” discusso preventivamente da nostri rappresentanti diplomatici, in un summit tenutosi a El Cairo nell’autunno 1973, che per ovvi motivi le nostre autorità non ammetteranno mai all’opinione pubblica. L’intesa viene raggiunta dopo che già negli anni precedenti diversi militanti palestinesi, responsabili di attentati o di trasporti di armi nel nostro territorio, sono stati scarcerati grazie a vari espedienti giuridici. Emblematico è il caso dei due fedayn – arrestati nel 1972 per aver consegnato a ignare turiste, in procinto di salire a bordo di un aereo civile, un mangianastri contenente esplosivo – liberati e spariti nel nulla poche ore dopo il benevolo collocamento in confino. Basta leggere le sbalorditive motivazioni allegate all’ordinanza di scarcerazione, emessa dall’ufficio istruzione del Tribunale di Roma, per spiegare il poco interesse delle nostre istituzioni a riaprire certi scaffali. Il “lodo” nasce non per ragioni callide. Ma per esigenze di sicurezza, ovvero per tutelare l’incolumità pubblica da minacce particolarmente gravi. Lo spiega con esemplare chiarezza Aldo Moro, giurista di comprovato valore, nelle lettere dalla prigionia. L’esponente democristiano cita lo stato di necessità che in taluni casi consente di derogare dalle norme ordinarie. Sbaglia però chi riduce il “lodo” al solo accordo di sicurezza».
Quindi, l’intesa tra Governo italiano e fedayn riguardava anche altri aspetti?
«Indubbiamente sì. Lo dimostrano gli esiti di una nota istruttoria della magistratura veneziana sul traffico di armi Br-Olp. Molteplici esponenti delle nostre istituzioni, interrogati sulla questione, hanno ammesso l’esistenza del “lodo”, riferendo ulteriori circostanze oggi dimenticate. Emerge infatti il ruolo di alcuni gruppi dell’Olp, coinvolti nel “lodo”, anche nelle attività di mediazione tra alcune nostre grandi aziende statali e diversi paesi arabi fornitori di risorse energetiche. Per quale motivo durante le varie inchieste, sorte all’indomani del famoso scandalo relativo all’affare Eni-Petromin del 1979, è stato più volte opposto il segreto di Stato? Chi credete che sia il beneficiario della maxi-tangente, in realtà una provvigione poco ortodossa, che l’Italia si era impegnata a versare su un conto cifrato a Panama per ottenere il petrolio saudita a costi vantaggiosi? Non è un caso che il “lodo” venga stipulato proprio alla fine del 1973. Allorquando, in seguito alla guerra dello Yom Kippur, gli stati arabi decidono la rovinosa quadruplicazione del prezzo del greggio. I meno giovani ricorderanno di certo i giorni dell’austerity e delle domeniche in bicicletta. In tale periodo, per un paese storicamente alleato d’Israele, guadagnarsi la simpatia dei combattenti palestinesi significa ottenere buoni rapporti con i paesi fornitori di petrolio. Rapporti indispensabili, per un paese privo di risorse dirette, in un momento di crisi particolarmente grave. L’intesa del nostro governo con l’Fplp e con l’Olp in generale non serve solo a neutralizzare la minaccia della guerra ‘surrogata’. Essa obbedisce a una ben precisa ragion di Stato che nessuno però avrebbe voglia di raccontare in un processo per strage. E non è tutto. Il terzo ambito del “lodo” è ancora più imbarazzante. Perché riguarda l’aspetto scabroso delle forniture di armi. I fedayn vengono armati in segreto dall’Italia. Anche in tal caso sarebbe opportuno studiare a fondo gli atti dell’istruttoria veneziana. Le ammissioni dinnanzi al giudice istruttore effettuate da numerosi esponenti delle nostre istituzioni. Viene a emersione un ‘sistema’ ampio e collaudato che i nostri governi dell’epoca affidano in gestione al servizio segreto militare. Esso si basa sulle forniture di armi, celate dietro il meccanismo della triangolazione. L’indicazione fittizia di un paese innocuo quale destinatario della ‘merce’. È così che l’Italia, in ossequio ai propri interessi strategici e alla propria anima ‘levantina’, fornisce armi sia ai palestinesi sia agli israeliani. E, a dire il vero, anche al regime sudafricano, ufficialmente sottoposto all’embargo per via dell’apartheid. Il “lodo” s’inserisce quindi in un ben più ampio ventaglio d’interessi, innescando il rovinoso meccanismo poi detonato a Bologna».
E’ la descrizione di un ‘sistema’ non solo riservato, ma anche vantaggioso, solido e quasi impenetrabile. Per quale motivo, poi, le nostre autorità lo avrebbero dovuto mettere in discussione? Per quale ragione si sarebbero messi a rischio la pubblica incolumità e un giro di affari addirittura vorticoso?
«I motivi sono molteplici. E meriterebbero riflessioni serie, utili a evitare in futuro altri disastri inconfessabili. Innanzitutto va considerata la slealtà dei fedayn, a loro volta sottoposti alle sollecitazioni delle potenze ostili all’Italia, venuti meno al patto di non belligeranza. Proprio nel 1980, il pentimento del brigatista rosso Patrizio Peci fornisce prova del doppio gioco palestinese. Anche dopo l’omicidio Moro, infatti, le formazioni oltranziste dell’Olp forniscono supporto e armi alle Br. Evidentemente l’amicizia con lo statista democristiano non rappresentava una priorità. Il capo delle Brigate Rosse, Mario Moretti, può incontrare a Parigi, nella massima tranquillità, il capo dell’intelligence dell’Olp, una organizzazione che, ribadisco, comprende lo stesso Fplp. Abu Ayad, membro della più ‘moderata’ Al-Fatah, ha una formazione marxista (al contrario di Arafat) ed è legato a filo diretto con Mosca. Ayad garantisce alle Br una gigantesca fornitura di armi ed esplosivi in cambio di un triplice impegno: 1) utilizzare solo in parte tali dotazioni militari; 2) distribuire una quota di esse ad altri gruppi terroristici affiliati alla medesima rete internazionale come Eta, Ira e ciò che resta della Raf; 3) mettere a disposizione dei gruppi armati palestinesi la restante parte del carico in alcuni arsenali nascosti in diverse regioni italiane. Non a caso, Ayad sarà l’uomo chiave dell’affaire di Bologna».
Dunque, l’accordo del 1973 sarebbe andato in frantumi per via del doppio gioco dei palestinesi?
«Non solo. Le ragioni più profonde sono altre. Va considerato che la triplice intesa con i fedayn (sicurezza, armi e mediazioni commerciali) viene ottenuta dal nostro Governo in un periodo molto particolare. Con buona pace del complottismo imperante, nei primi anni ’70 si registra un parziale disimpegno degli americani dall’Europa. Ciò è dovuto sia all’esigenza degli Usa di privilegiare il teatro asiatico, visto il rovinoso andamento della guerra in Vietnam, sia agli specifici impegni assunti con l’Urss nel quadro della cosiddetta distensione. Termine quanto mai ambiguo. In tale fase, le maglie del blocco occidentale sono larghe e l’Italia ne approfitta per tessere le sue relazioni nello scacchiere mediterraneo. Entrando in conflitto d’interessi con nazioni teoricamente amiche. Regno Unito ma soprattutto Francia. Tuttavia, sin dal dopoguerra il nostro paese viene considerato un ‘oggetto’ e non un ‘soggetto’ della politica internazionale. I mutamenti che occorrono nei rapporti tra le grandi potenze si riversano in modo quasi automatico nella vita politica italiana. Generando contraddizioni talvolta rovinose. Nel 1979 la distensione tra Usa e Urss è solo un ricordo. La ‘guerra fredda’ torna a dettare le sue regole in Europa. Non a caso, il Pci esce dalla maggioranza e da quel momento trova la ‘porta’ democristiana definitivamente sbarrata. Ha inizio il primo governo guidato da Cossiga, scelto proprio per la sua ortodossia atlantista. Requisito indispensabile per la gestione del nuovo corso. Sono i mesi della battaglia in Parlamento per l’approvazione degli Euromissili. Una scelta che verrà adottata per prima proprio dall’Italia e che susciterà la dichiarata indignazione di Mosca. Un mutamento di rotta gravido di conseguenze soprattutto nell’area mediterranea».
Gli euromissili, però, riguardano lo scontro tra Est e Ovest.
«Certamente. Ma s’inseriscono in una fase della guerra fredda in cui si comincia a prestare molta attenzione al fianco sud della Nato, ora ritenuto vulnerabile. Nel periodo precedente, infatti, la minaccia sovietica viene percepita solo da Oriente. Non senza ragione, considerato che, nei progetti d’invasione dell’Europa democratica, da parte del Patto di Varsavia, l’attacco all’Italia sarebbe partito dall’Ungheria. Lo ha spiegato con autorevolezza il generale Carlo Jean. Ma nel 1980 si ragiona con una prospettiva diversa rispetto ai decenni precedenti. Si comincia a tenere conto delle criticità ascrivibili allo scacchiere mediterraneo. Non a caso, nell’aprile del 1980 l’Istituto Affari Internazionali pubblica il saggio dedicato proprio al “fianco sud della Nato”. Non a caso, in tale periodo s’iniziano a potenziare le basi militari ubicate in Sicilia. Non a caso, appunto, già si decide che la collocazione degli Euromissili, ufficializzata in seguito, sarà proprio in Sicilia. Si consideri che il raggio d’azione dei Cruise, l’arma destinata all’Italia, è molto più ridotta dei Pershing II destinati alla Germania Ovest. Dunque, l’efficacia deterrente dei Cruise si estende con maggiore evidenza nel bacino del Mediterraneo. Anche la crescente ostilità americana nei riguardi della Libia, che proprio nel 1979 ha stretto un accordo stringente con l’Urss, s’inserisce nel quadro di una rinnovata sensibilità per il pericolo proveniente da Sud. Ciò ovviamente reca un gravissimo problema all’Italia che negli anni della distensione ha instaurato rapporti molto stretti con il regime di Tripoli. La Libia, infatti, è il nostro principale partner commerciale. E nel 1976 è diventata azionista della Fiat, soccorrendola in un momento di forte difficoltà. Tra il 1979 e il 1980 la nostra diplomazia ufficiale, imposta dall’alleanza militare, entra in rotta di collisione con la diplomazia ‘parallela’, avviata negli anni precedenti dai nostri governi in Nordafrica e Medioriente. Emblematica è la storia del trattato di protezione militare di Malta. Un’iniziativa apparentemente inspiegabile, considerate sia la scarsa propensione del nostro paese per imprese simili sia gli enormi svantaggi economici causati dal deterioramento dei rapporti con Gheddafi. Tutto appare plausibile però se si ragiona sull’utilità recata all’intero blocco occidentale, impossibilitato a gestire direttamente la questione maltese, nell’estromissione di libici e sovietici da un centro nevralgico dello scacchiere mediterraneo. Non a caso la sottoscrizione del trattato (fase propedeutica a quella dello scambio di note e alla definitiva ratifica) avviene proprio il 2 agosto 1980. Non a caso essa desta la plateale irritazione delle nazioni arabe che gravitano nell’orbita filosovietica. Non a caso essa viene incredibilmente nascosta al Parlamento e all’opinione pubblica. Se messi a conoscenza all’epoca della perfetta coincidenza temporale, tra la sottoscrizione dell’accordo e l’esplosione di Bologna, anche i cittadini più sprovveduti avrebbero avuto percezione del nesso esistente tra le spericolate piroette della nostra politica estera e una strage con 85 vittime. Meglio dare per scontata, sin dall’apertura dell’inchiesta bolognese, la responsabilità dei soliti fascisti».
La questione del “lodo” e dell’Fplp come s’inserisce in questo quadro?
«Da una parte, l’Fplp persegue i suoi scopi ma resta una pedina della guerra ‘surrogata’ condotta dall’Urss contro l’occidente. Dall’altra, il “lodo” del 1973 s’inserisce completamente nell’ambito della già menzionata diplomazia ‘parallela’, tessuta con enorme disinvoltura dall’Italia negli anni della distensione. Tale diplomazia ‘parallela’ entra in disastrosa rotta di collisione con la diplomazia ufficiale, allorquando nel 1979 la ‘guerra fredda’ torna a dettare le regole del gioco. Il nuovo corso atlantista di Cossiga si dimostra inconciliabile con l’alleanza con l’Fplp, atteso che solo due anni prima tale gruppo ha prestato aperto sostegno alla campagna terroristica della Raf contro la Germania Ovest. Il cosiddetto autunno tedesco. In tale fase l’Italia comincia non solo a prendere le distanze dalle frange estremiste della resistenza palestinese ma contribuisce in modo rilevante a un tentativo di spaccatura dell’Olp, costato molto caro. Il primo esecutivo guidato dallo statista sardo si giova del supporto di una maggioranza estesa ai socialisti. Il Psi, guidato da Bettino Craxi, entrerà poi nel secondo governo Cossiga, che rende definitiva la svolta atlantica, sorto proprio nei primi mesi del 1980. In tale fase l’azione dei socialisti, tesa peraltro all’emarginazione del Pci, si rileva decisiva. Essa sarà importante anche nelle relazioni internazionali. In particolare nel tentativo esperito e fallito dall’Europa democratica, attraverso appunto l’internazionale socialista, di allontanare Arafat dalle formazioni oltranziste palestinesi, come l’Fplp, che partecipano alla guerra ‘surrogata’ contro l’occidente. Quelle dunque più sensibili alle sollecitazioni dei paesi arabi filosovietici. L’internazionale socialista cerca di convincere il capo dell’Olp ad accettare una soluzione politica del conflitto israeliano-palestinese. Una strada negoziale che porti al riconoscimento sia del diritto all’autodeterminazione del popolo palestinese, sia della legittimità dello stato d’Israele. Una iniziativa che lede gravemente gli interessi dell’Fplp, sempre convinto che lo stato palestinese possa e debba nascere solo attraverso la sconfitta militare degli israeliani. L’iniziativa europea verrà pagata a caro prezzo».
Quando ha inizio esattamente lo scontro tra il Governo italiano e l’Fplp?
«Nel novembre 1979, a Ortona. La notte in cui i carabinieri arrestati tre giovani romani, militanti di “Autonomia operaia”, intenti a trasportare i famigerati Strela. Missili terra-aria di fabbricazione sovietica di proprietà dell’Fplp. Tale vicenda, finita a lungo nel dimenticatoio, è tornata alla pubblica attenzione grazie alla tenacia e alla competenza di Gian Paolo Pelizzaro. Il giornalista investigativo, consulente di numerose commissioni parlamentari, che nel luglio 2005, dopo anni di ricerche silenziose, riesce a tirare giù il muro di gomma allestito dalle nostre istituzioni sin dalla mattina del 2 agosto 1980».
Fabio Meloni
(2ª puntata – La 1ª puntata, “Per i magistrati bolognesi la ricostruzione giudiziaria non può essere messa in discussione”, è stata pubblicata il 30 luglio 2021)
(admaioramedia.it)