La scorsa primavera, erano circolate, senza particolare seguito, diverse proposte di modifica della legge elettorale regionale: dall’introduzione del doppio turno caldeggiata da certi settori del centrosinistra, all’improbabile ripristino del proporzionale proposto da Daniele Cocco, consigliere regionale di Leu, partito seriamente indiziato di restare fuori dal Consiglio regionale in assenza di accordi più ampi.
Oggi, a tempo ampiamente scaduto, riemergono velleitarie intenzioni di modifica del sistema elettorale sardo, i cui tratti fondamentali sono l’elezione del Presidente della Regione a turno secco, generosi premi di maggioranza (purché si superi il 25% dei voti) e impervie soglie di sbarramento per liste singole (5%) e coalizioni (10%). Indubbiamente una pessima legge, che alle elezioni regionali 2014 ha lasciato fuori dal Consiglio liste che hanno totalizzato insieme circa il 16% (guidate dagli aspiranti governatori Michela Murgia e Mauro Pili), situazione molto simile a quella che si verifica spesso nelle elezioni legislative della Turchia, non esattamente un modello di democrazia. Ma il discorso si fa un po’ pruriginoso se, a voler cambiare le regole del gioco in ‘zona cesarini’ è una formazione politica in forte (e congenita) difficoltà, che alle scorse elezioni politiche ha ottenuto pochissimi voti, è frazionata in una miriade di gruppi costitutivi e, con le regole attuali, perderebbe la partita ancor prima di disputarla.
Si tratta, manco a dirlo, del Progetto Autodeterminazione, dalla ragione sociale eternamente sospesa tra l’indipendentismo radicale e antimilitarista e un estremismo di sinistra da centri sociali, che, per il prossimo 26 settembre, ha indetto un sit in davanti al Consiglio regionale per rivendicare l’eliminazione dalla legge elettorale del “presidenzialismo”, dei “premi di maggioranza” e degli “sbarramenti antidemocratici”. Insomma, per tornare al proporzionale puro ben noto nella Prima Repubblica, che dava diritto di tribuna anche a piccole formazioni come, per esempio, Democrazia proletaria, ma rendeva il Paese ingovernabile. E’ indubbio che questo sistema elettorale penalizzi le forze politiche nuove e non consolidate, per le quali è proibitivo superare le soglie di sbarramento previste (mentre, con previsione congeniale al centrosinistra, ai micropartiti di una coalizione che superi il 10% basta ottenere un quoziente pieno, circa l’1% dei voti), ma la sua ingiustizia, che ne renderà inevitabile la revisione nella prossima legislatura, non comporta che Autodeterminazione possa cavarsela incolpando del proprio prevedibile insuccesso soltanto la legge elettorale.
La storia insegna, infatti, che quando un popolo vuol far sentire la sua voce, ci riesce ad onta di qualsiasi alchimia elettorale, come ha dimostrato in qualche modo l’esito delle elezioni politiche del 4 marzo, che, pur celebratesi con un sistema elettorale come il Rosatellum, palesemente congegnato per favorire un possibile ‘inciucio’ tra Partito democratico e Forza Italia, ha determinato la nascita, quale unica formula di maggioranza possibile, dell’accordo gialloverde tra Lega e Movimento 5 Stelle. Se Autodeterminazione non entrerà nel Consiglio regionale, come oggi appare molto probabile, lo dovrà solo al fatto che il suo progetto politico sarà brutalmente respinto dal popolo sardo, come è successo alle Politiche: l’autonomismo, il ‘sovranismo’ in salsa sarda e l’indipendentismo hanno tantissime sfaccettature, come insegna la complessa storia centenaria del Partito Sardo d’Azione, e quella che punta tutto sull’antimilitarismo intransigente, sull’estremismo politico da centri sociali e su una illimitata e incondizionata ‘accoglienza’ dei cosiddetti migranti ha ben poco appeal per i Sardi, che oggi desiderano soprattutto lavoro, sviluppo e un futuro che non sia solo di emigrazione o di lavoretti di terz’ordine.
Caesar
(admaioramedia.it)