Nella vita professionale pluridecennale di un libero professionista, che si occupa di difesa del suolo e di dissesto idrogeologico, si ha il tempo di raccogliere alcune perle di saggezza popolare: “Oh su dottori, su frumini in gui no esti mai passau” (Il fiume qui non e’ mai passato); “Dove ha visto il fiume, se esiste è solo nelle sue carte”; “Non mi parli di fiumi, si tratta di un canale, tutt’al più di un rigagnolo, dove dai tempi di mio nonno non abbiamo mai visto una goccia d’acqua”; “Non siamo mica dentro il fiume, è distante almeno 20 metri”; “Non parli di concetti astratti come il trasporto solido, almeno che non sia una nuova moda”; “Se dobbiamo considerare tutti i fattori, il ponte lo dobbiamo dimensionare al doppio della luce”; “Il Comune ci ha chiesto una relazione geologica e geotecnica, ma sicuramente è solo per fare carte e burocrazia, e gravarci di ulteriori costi”.
Poi, c’è chi per proprio conto, la natura, senza l’intermediazione di un geologo, ha fornito le soluzioni: canali, torrenti, corsi d’acqua, fiumi della Sardegna orientale e occidentale. Finora non sono bastate le ‘risposte’ date dagli eventi naturali negli ultimi 70 anni circa: nel 1951, 1971, 1985, 1986, 1999, 2005, 2008, 2013. Allora, si riparte sempre da ‘su connottu’ (ciò che si conosce) e chiunque si sia imbattuto in un evento alluvionale, anche senza l’uso di uno strumento di calcolo, come l’abaco di geomorfologia fluviale, ha notato come per classificare un corso d’acqua sia fondamentale individuare tre distinti alvei: letto di magra (o canale di scorrimento); letto ordinario (o alveo di piena); letto di inondazione (o alveo maggiore). Un anziano saggio avrebbe detto “cussu du scidi puru su burriccu e’aiaiu” (quello lo sa pure l’asino di nonno). Però, ciò che appare scontato e ovvio, oggi non è poi così scontato e così ovvio. Quindi, è opportuno che chiunque progetti opere, che potenzialmente interagiscano con un corso d’acqua si soffermi prima su questi tre aspetti, avendo cura di integrarli con una valutazione sulla dinamica fluviale dell’intero bacino idrogeologico. Il fiume che interagisce con una qualsiasi opera deve essere oggetto di uno studio specifico e deve essere classificato come ad alveo a fondo fisso o ad alveo a fondo mobile, cioè definire se il fiume si evolva e quindi si ‘muova’ oppure no.
Se abbiamo assistito nuovamente a fenomeni alluvionali che hanno messo in ginocchio le economie locali, che hanno interagito e condizionato la vita di ciascuno, qualcosa nelle analisi e nelle valutazioni non ha funzionato, posta l’importanza dell’evento, infatti alcune opere hanno contrastato e resistito al potere erosivo dei fiumi, altre meno. Il contesto territoriale, quindi, non è statico, perché variamente antropizzato, perciò sorge la necessità di una programmazione e organizzazione territoriale, fulcro di una politica attiva di difesa dal dissesto idrogeologico (frane e alluvioni), che tenga conto della dinamicità del suolo. Una politica regionale di difesa del suolo con presidi territoriali dotati di tecnici specializzati (esperienza almeno decennale) che indirizzino le manutenzioni fluviali e le opere di difesa del suolo nei tratti a rischio.
Attualmente mancano studi specifici, come la perimetrazione di aree a rischio di colata detritica (come accaduto a Villagrande nel 2005, a Capoterra nel 2008, e Muravera nel 2018), cioè fiumi con ingente trasporto di materiale solido, che interagisce pesantemente con abitazioni e strade che si trovano lungo il percorso della colata. E’ sfuggita l’importanza del mantenimento del patrimonio boschivo ai fini della prevenzione del rischio idrogeologico: la forestazione del territorio con l’aiuto dei privati si potrebbe attuare fornendo un contributo economico per ogni ettaro di bosco impiantato. Una seria politica deve, comunque, essere supportata da leggi che contengano regole progettuali ferree per le opere pubbliche (edifici, strade, ponti) e per le opere private, imponendo per le edificazioni studi geomorfologici che definiscano la pericolosità del territorio in relazione ai fenomeni alluvionali ed alle frane. Serve anche individuare il reticolo idrografico della Sardegna originale, così come riportato nella carta tecnica regionale del 1968, al fine di studiarne l’interazione con l’edificato attuale e le infrastrutture a rete, oltre alla reale consistenza di fiumi e torrenti. Occorre mettere in atto una politica di prevenzione provvedendo alla redazione dei piani di apertura stagionale delle foci di torrenti e fiumi, in modo che la piena ordinaria dei fiumi riesca a defluire senza ostacoli. La Regione dovrebbe finanziare e invogliare le amministrazioni locali a dotarsi dei piani di manutenzione fluviale, affinché si possa provvedere alla manutenzione ordinaria, da attuarsi nell’arco di almeno tre anni. Infine, l’obbligo di studio geologici e geomorfologici per tutte le opere in Sardegna.
I gravi eventi che funestano i nostri territori dovrebbero insegnare qualcosa e lasciare un’eredità positiva, consentendo il compimento di importanti passi verso la comprensione delle dinamiche fluviali e l’individuazione degli errori di pianificazione e realizzazione di opere che interagiscono coi corsi d’acqua. Con una crescita culturale, a partire da coloro che il territorio lo vivono e lo studiano: i professionisti, che dovrebbero essere adeguatamente formati a progettare ed eseguire le opere; le imprese, che dovrebbero essere maggiormente specializzate; i cittadini, che andrebbero informati correttamente sull’andamento planimetrico dei corsi d’acqua nel territorio dove vivono e lavorano, oltre che dei rischi connessi all’evoluzione del reticolo e dei versanti (inondazioni e frane) e delle mappe di rischio idrogeologico, nonché invogliati a studiare e conosce i piani di protezione civile, coinvolgendoli attivamente nelle esercitazioni pratiche.
Uranio238
(admaioramedia.it)