Dopo la riesumazione, avvenuta lo scorso 25 marzo nell’ambito di un nuovo filone del processo per la strage di Bologna del 2 agosto 1980, dei resti di Maria Fresu, vittima sarda dell’attentato, la difesa di Gilberto Cavallini (ex appartenente ai Nar processato a 39 anni di distanza dalla strage) ha chiesto l’esame del Dna sui resti attribuiti alla 24enne, certamente una delle morti più misteriose tra le 85 dell’attentato. Gli avvocati, Gabriele Bordoni e Alessandro Pellegrini, hanno fatto istanza alla Corte di assise, motivandola coi risultati anomali della riesumazione nel cimitero di Montespertoli (Firenze), decisa per effettuare una perizia sull’esplosivo: secondo la difesa di Cavallini ci sarebbe una “discrasia tra quanto rilevato dal perito medico-legale dell’epoca e quanto emerso”.
Maria Fresu era originaria di Nughedu San Nicolò ed era arrivata qualche anno prima in provincia di Firenze, a Gricciano, frazione del piccolo comune di Montespertoli (provincia di Firenze), insieme a papà Salvatore che, con altri sette figli (sei donne ed un uomo), si era trasferito in Toscana ad allevare le sue pecore. Nella mattina del 2 agosto, l’operaia tessile era alla stazione di Bologna, insieme alla figlia Angela, di appena 3 anni, in procinto di partire per le vacanze al Lago di Garda e si trovava nella sala d’aspetto al momento dell’esplosione. Con loro anche due amiche, una morta insieme alla piccola Angela, mentre l’altra si salvò, nonostante le gravi ferite. Però, del corpo di Maria non si trovò alcuna traccia, nonostante l’amica superstite raccontò che al momento dell’esplosione erano tutte insieme. Durante le ricerche, nelle ore seguenti, Maria non venne più ritrovata, come disintegrata. Furono recuperati solo frammenti del volto, o meglio furono attribuiti a lei in quanto ‘non mancanti’ a nessun altro dei corpi recuperati.
Il materiale esumato, però, con grande sorpresa dei periti incaricati dal Tribunale non era esattamente quello che si pensava di trovare all’interno della bara: pochi resti posati direttamente su un cuscino e diversi da ciò che era stato descritto nella perizia che li attribuì a Maria Fresu (per esempio, nella relazione si parlava dell’occhio sinistro e di un dente, che se fossero stati inseriti nella bara si sarebbero dovuto trovare anche dopo 39 anni). L’analisi dei resti, grazie alle moderne tecniche, era finalizzata a comprendere che tipo di esplosione si fosse verificata a Bologna, tale da far ‘scomparire’ un corpo quasi interamente.
“A scanso di equivoci, Maria Fresu è con assoluta certezza una vittima innocente della strage – ha evidenziato Valerio Cutonilli, avvocato ed autore, insieme al giudice Rosario Priore, del volume “I segreti di Bologna“ (Edizioni Chiarelettere) – Con altrettanta certezza si può affermare che le motivazioni ‘ufficiali’ del mancato ritrovamento del suo cadavere (prima inchiesta 1980-86) non sono sostenibili per due ragioni. Stando alla ricostruzione dei fatti, scaturita dalla deposizione della sua amica sopravvissuta, Maria si trovava a una distanza tale dal punto dell’esplosione da rendere fantasiosa l’ipotesi della disintegrazione. Anche la perizia giudiziaria all’epoca effettuata sul lembo facciale attribuito alla scomparsa si fondava su un assunto che l’ematologia ha sconfessato ormai da diversi decenni. Il perito giudiziario effettuò l’esame del gruppo sanguigno sui liquidi presenti nel lembo facciale. Da tale esame risultò che la donna a cui apparteneva detto lembo era di gruppo sanguigno A, mentre Maria era con certezza di gruppo 0. Il perito giudiziario superò tale obiettiva contraddizione sostenendo che taluni individui sono ‘secretori paradossi’, ovvero hanno nei liquidi tracce di un gruppo sanguigno differente dal loro. Tesi respinta come un’assurdità dalla scienza medica”.
Ecco perché gli avvocati dell’imputato Cavallini ritengono necessario l’esame del Dna sul lembo facciale: “Il suo esito – spiega Cutonilli – consentirà di emendare gli errori contenuti nella ricostruzione ufficiale data per certa sino ad oggi. Se l’esame del Dna confermasse che il lembo facciale appartiene a Maria Fresu, significherebbe che sia le dichiarazioni dell’amica superstite sia l’esame effettuato dal perito giudiziale sono errati. In tal caso, infatti, la donna scomparsa non sarebbe potuta stare accanto all’amica al momento dell’esplosione. Al contrario si sarebbe spostata improvvisamente e posta a stretto contatto con la valigia proprio al momento della detonazione. Sempre che ciò sia sufficiente per giustificare una disintegrazione. Anche il perito giudiziario avrebbe errato clamorosamente nell’esaminare i liquidi, scambiando il gruppo 0 per il gruppo A e rimediando poi all’errore commesso con la tesi insostenibile della ‘secrezione paradossa’. L’esame, peraltro, fu ripetuto numerose volte, onde evitare qualsiasi incertezza sull’esito. Se invece l’esame del Dna dovesse escludere l’appartenenza del lembo facciale a Maria, esso offrirebbe inevitabilmente prova di una ottantaseiesima vittima di sesso femminile, rimasta sconosciuta per 39 anni. Ciò perché, stando sempre alla ricostruzione ufficiale, solo due cadaveri di donna avevano il volto sfigurato. Ma l’età avanzata delle due vittime era incompatibile con il lembo facciale in quanto la pelle mostrò al perito giudiziario la freschezza tipica di una donna giovane. Ma soprattutto è il gruppo sanguigno delle due vittime in questione, anche in tal caso diverso dal gruppo A, a rendere impossibile l’attribuzione. La questione va risolta sul piano strettamente scientifico. Ma a breve sapremo qual è esattamente l’errore contenuto nella ricostruzione ufficiale. Se si tratta di sbagli gravi, ma emendabili. O se la storia della strage di Bologna va riscritta”.
Con il caso, ancora misterioso, di Maria Fresu, la Sardegna torna involontaria protagonista nel mistero della strage alla stazione di Bologna: altra presenza mai chiarita fino in fondo è quella del passaporto di Salvatore Muggironi, professore di Aritzo, vicino ad ambienti della sinistra extraparlamentare, ritrovato tra le macerie dopo l’attentato, senza aver mai appurato, per troppi silenzi e tanti ‘non ricordo’, come fosse finito nella sala d’aspetto della stazione bolognese. Seppure sia stato appurato che l’insegnante sardo (ancora in vita e residente nell’Isola, ma tuttora non disponibile a chiarire i fatti) si trovasse a Bologna nei giorni precedenti l’esplosione.
Fabio Meloni
(sardegna.admaioramedia.it)