Contrariamente alla morale contenuta nel vecchio proverbio, ci sono tanti buoni motivi in Sardegna per piangere sul latte versato. Per i gesti estremi, anche se per ora abbastanza isolati, che in qualche caso sono andati pericolosamente oltre la legalità, ma soprattutto per ciò che la protesta dei pastori rappresenta, forse al di là delle sue stesse intenzioni, in termini economici ma anche sociali e in qualche modo culturali.
Il problema economico, ovviamente, resta in primo piano. E nasce dal fatto che, purtroppo, nella pastorizia la Sardegna è rimasta ferma a ‘su connottu’ senza innestare su questo robusto tessuto tradizionale la conoscenza, restando cioè ferma ad una produzione basica come quella del pecorino romano che da una parte (quando le cose vanno bene) tiene in piedi il sistema privati-cooperative-trasformatori, ma, dall’altra, è ciclicamente esposta ad un mercato che si scatena sempre contro l’anello più debole della catena, i pastori. Questo succede solo in Sardegna, a differenza dell’Europa, del mondo e di un mercato globale che propone ai consumatori una pluralità di prodotti, cosa che il sistema sardo non fa. Ed è la questione più importante che bisogna risolvere, in una Regione che nell’antichità era il granaio di Roma, mentre ora si è ridotta ad importare circa l’80% dei prodotti agricoli.
In secondo luogo, è impossibile non vedere che dietro la protesta dei pastori sardi che sta attraversando in vario modo tutta la società sarda, ci sono molti nodi irrisolti dello sviluppo lasciati aperti dalla devastante crisi della grande industria chimica: i rapporti città-campagna, centro-periferia, aree urbane-zone interne. In questo senso, e sbaglia qualche intellettuale a non riconoscerlo limitandosi alla dimensione materiale della cosiddetta ‘guerra del latte’, ci sono analogie evidenti con il movimento dei ‘gilet gialli’ francesi che, proprio nella loro componente più matura (“Les emergents”) prendono nettamente le distanze dalle frange più radicali (e violente) e lavorano ad un programma concreto da sottoporre alla politica, riservandosi di interpretarlo in prima persona se ce ne saranno le condizioni.
La Sardegna, da molti punti di vista, ha bisogno di una ‘ricucitura’ comunitaria e di una nuova ‘idea’ di se stessa, come dimostrato da molti segnali. Quello dei pastori è solo l’ultimo in ordine di tempo, ma fra i più significativi. Sta ora alla classe dirigente ed alla politica saperli ascoltare e tradurli, più che in un programma elettorale, in una nuova ‘visione’. Il tempo non è molto.
SardoSono
(admaioramedia.it)