Se nel settembre scorso, il presidente della Regione, Francesco Pigliaru, non si fosse incautamente scagliato contro i giovani sassaresi di CasaPound definendoli “un gruppo di nostalgici messi fuori legge dalla Costituzione”, nessuno gli avrebbe ricordato di essere figlio di un illustre personaggio sardo, Antonio, che finì in galera proprio per essere un ‘nostalgico’ fuorilegge.
Il fatto, ovviamente, costrinse il Presidente a non proferire più parola sulle questioni attinenti al fascismo e ai fascisti o presunti tali, ma ebbe il merito di richiamare alla memoria dei Sardi la figura di Antonio Pigliaru, non a caso definito il più grande intellettuale sardo dopo Gramsci, di cui quest’anno ricorre il cinquantennale della morte, avvenuta a Sassari il 27 marzo 1969. Sia la cultura sarda che quella nazionale gli devono qualcosa, ma sopratutto è auspicabile che gli intellettuali sardi, perlomeno quelli liberi dal politicamente e culturalmente corretto, i non conformisti, diano una mano per rimettere in circolazione tante idee di Pigliaru, che molto hanno a che fare con l’attuale sviluppo della società sarda.
Antonio Pigliaru nasce a Orune nel 1922, ha una infanzia non felice, orfano di padre morto suicida. Non aveva conseguito ancora la licenza liceale, che in via eccezionale fu ammesso a partecipare ai Littoriali della Cultura e dell’Arte che si tennero a Bologna nel 1940. «Non ascoltai Antonio (era relatore sul tema “Razza e costume nella formazione della coscienza fascista”) perché a mia volta impegnato nel convegno di critica musicale, ma ricordo che la sera, in albergo, lo incontrai entusiasta della spregiudicatezza e quasi libertà con cui la discussione s’era portata avanti. Fu per esempio in quei giorni che sentii parlare per la prima volta di psicoanalisi e di valori ebraici nella musica», racconta il suo amico e camerata di quei tempi, l’avvocato sassarese Giuseppe Melis Bassu.
Pigliaru prosegue la sua attività fascista collaborando con la rivista del Guf sassarese, “Intervento”, e curando il periodico della Gil (Gioventù italiana del littorio), “Giovinezza in marcia”. Nel novembre 1942 abbandona la collaborazione ad “Intervento” per solidarietà con Melis Bassu, che era stato estromesso dalla rivista per aver preteso di pubblicare un articolo col quale si denunziava che un certo gerarca rubava nei magazzini dell’assistenza. Già qualche mese prima, sia Pigliaru che Melis Bassu erano stati sostituiti nella redazione del periodico “Giovinezza in marcia” per aver teorizzato una concezione ‘liberale’ dell’educazione, considerata poco rispettosa delle direttive in materia. Nel 1943, Melis Bassu sostiene che «Pigliaru era già, certissimamente, fuori dal fascismo regime» e che «la caduta del regime fu un evento tragico, angosciante, ma già da lui collocato nelle logiche evenienze della storia». Ciò nonostante, nel marzo 1944, Pigliaru fu arrestato con l’imputazione di aver costituito a Sassari un “Comitato regionale fascista”. Subì il primo processo antifascista dell’Italia ‘liberata’: il 29 agosto 1944 ebbe sei anni di carcere, che scontò prima ad Oristano, poi ad Alghero e all’Asinara, dove fu liberato nel 1947 in seguito all’amnistia di Togliatti. In carcere contrasse una grave malattia che, oltre a costringerlo in seguito a frequenti ricoveri ospedalieri, lo portò alla morte a soli 47 anni.
Non ha lasciato da molto il carcere, quando coraggiosamente si ributta nella mischia iscrivendosi al Movimento sociale italiano e scrivendo sul periodico missino “Il Quarantotto”, firmando con due lettere dell’alfabeto greco: alfa e p.greco. Nel 1949, insieme all’ex capitano delle SS italiane, il professore Salvatore Piras, fonda la rivista “Ichnusa” e, quasi per sfida, affronta il tema del fascismo commentando i diari di Bottai e contemporaneamente il 25 aprile 1949, su “Rinascita Sarda”, pubblica l’articolo “Commosso omaggio a Gentile” (il filosofo ucciso a Firenze, il 22 marzo 1944, dai partigiani comunisti dei Gap), dove afferma che «quando echeggiavano i colpi di pistola che lo tolsero dal mondo dei vivi, non vi fu persona ben nata o uomo di cultura onesto, che non sentisse l’orrore di quella violenza. Violenza usata contro un uomo buono, che in quel periodo di tormentato della storia d’Italia badava ad aiutare gli Italiani: Italiani dell’una e dell’altra schiera […]. Quest’uomo buono che non sentiva e forse non capiva la fazione, la violenza, il rancore».
Nel 1949, inizia anche un carteggio con Bottai, attraverso il quale i due pongono a fuoco le rispettive posizioni morali in ordine alla tragedia del fascismo. «Cospirando nel Sud a favore del Nord, e nonostante l’ultimo anno di fascismo storico mi avesse staccato quasi in toto dall’impegno di una fedeltà esteriore, in fondo avevo finito con l’assumere un atteggiamento nuovo […] – scrive Pigliaru all’ex Gerarca in una lettera dell’11 gennaio 1950 – praticamente non mi riuscì difficile restare nel carcere, dal lato di Gentile senza rinunciare a Bottai, forse nel principio d’istinto, ma poi a poco a poco con perfetta giustificazione e con più sufficienti argomenti». Il 19 gennaio, Bottai risponde: «A stringere la nostra amicizia, per ora epistolare, ha valso la certezza reciproca che nella diversità delle strade battute tra cose e uomini, sentivamo che ci aveva guidato il senso di un’unica via. Io non voglio, e non posso, accostarmi a Gentile: ma sono sicuro, per la dimestichezza ch’ebbi con lui fino alla metà di agosto, ch’egli si sia recato al Nord seguendo lo stesso ragionamento che ha portato me a combattere altrove […]. Io so bene che al Nord giovani come Lei hanno, a loro volta, perseguito il compimento di una loro esperienza […]. Tutte codeste esperienze, e quella del Maestro, e quella dei suddetti giovani, e ultima la mia, ebbero una validità morale che si tratta di liberare da ogni sovrastruttura polemica».
Intanto, prosegue il suo lavoro di interprete del pensiero di Gentile e nel 1953 pubblica il saggio “In tema di lavoro e di cultura in Giovanni Gentile “, nel 1954 “Studi sul pensiero di Gentile “, nel 1956 “L’esistenzialismo positivo di Gentile”. Nel 1957, pubblica il saggio “Considerazioni sulle riviste dei Guf”: «Questo breve lavoro – scrive Marina Addis Saba – merita di essere esaminato per l’enorme quantità di intuizioni, di suggerimenti, di ipotesi che solo più tardi la storiografia ufficiale farà propri […] Il particolare merito di Pigliaru fu quello di indicare la maturità in cui essa (la generazione del Littorio) era pervenuta nel vivere attivamente e con mentalità critica entro il regime, nel tracciare l’ampiezza culturale in cui essa si era mossa, dalla politica all’arte, dalla letteratura alla musica, al teatro, al cinema». Probabilmente, sul finire degli anni ’50, Pigliaru approda ad un antifascismo estremo e radicale con una condanna non solo del regime, ma anche della dottrina. In occasione di un attentato dinamitardo contro una lapide ricordante il 25 luglio scrive su “Sardegna oggi”: «Cosa abbiamo fatto noi della “Generazione di Mussolini” per trasmettere ai nostri fratelli minori, a questi nostri primi figli, la lezione della nostra esperienza, il bilancio reale della nostra giovinezza? All’indomani eravamo stanchi e mortificati, carichi di vergogna e di superbie inutili, forse sbagliate, vittime e insieme carnefici di una devastazione che era stata profonda anche in noi […]. L’accusa di incoerenza. Il sospetto del tradimento. La crisi dell’amicizia […]. Siamo stati fascisti? Non chiedetemi (per darmi un alibi) a quale età. Erano gli anni che contavano; e se nel ’42 eravamo sul punto di una scelta diversa, peggio per noi, peggio per me, se rinviando tutto al momento giusto, ho in effetti rinviato tutto al momento sbagliato».
Negli anni ’60, Pigliaru approda ad una forma di socialismo cristiano pacifista: contro la guerra («…è il portato di null’altro che una somma di infedeltà alle ragioni della vita») e si batte per l’obiezione di coscienza a cui dà una rigorosa giustificazione etica e giuridica. Diventa a Sassari un infaticabile organizzatore di numerose attività culturali: famosi i “Dibattiti del sabato”. In uno di questi, dedicato alla Cina Popolare coinvolge anche Ugo Spirito, filosofo allievo di Gentile, che per percorso politico e intellettuale ha molti tratti in comune con Pigliaru. Invece, il suo impegno politico (non di partito, poiché Pigliaru non aderì mai a nessun partito) fu soprattutto in ordine ai problemi della Sardegna. Nel 1959, pubblica il libro più importante che lo farà conoscere non solo in Italia ma anche all’estero: “La vendetta barbaricina come ordinamento giuridico”, dove pone in termini umani la questione sarda e, per dirla con Manlio Brigaglia, «faceva della questione sarda il problema dei rapporti tra la comunità isolana e lo Stato». Uno Stato che, diceva Pigliaru, non ha titolo di essere Stato se non è capace di farsi riconoscere anche dalla più diseredata e marginale delle sue comunità. Lo Stato è assente in Barbagia, secondo Pigliaru, «nel senso di Stato come libertà, come strumento o ipotesi di liberazione, come strumento o ipotesi di giustizia reale». Facile sottolineare, come ha fatto Domenico Corradini, che questo Stato così invocato assomiglia molto allo ‘Stato etico’ di Gentile.
Alla fine degli anni Sessanta, i grandi temi che avevano entusiasmato Pigliaru (l’unità delle forze autonomiste laiche, cattoliche e di sinistra, il piano di rinascita, il ruolo centrale dell’intellettuale nello sviluppo, dell’autocoscienza del popolo sardo, il riformismo scolastico, lo stesso antifascismo come pedagogia alla democrazia ed alla tolleranza) entrano profondamente in crisi. A partire dal 1968 bussa alle porte la generazione degli “anni facili” cresciuta nei miti del benessere, del progressismo e dell’antifascismo. Come pose Pigliaru di fronte al ’68 lo dice un suo allievo ‘sessantottino’, Guido Melis: «In ogni caso l’impatto tra un intellettuale tanto intimamente legato al dibattito politico-culturale degli anni precedenti come era Pigliaru e la cultura del ’68 fu aggravato dalla coincidenza con le trasformazioni della politica culturale dei secondi anni ’60 […]. In un certo senso, rifiutando di cavalcare la tigre della contestazione Pigliaru tendeva ad impedire una rottura […], a riaffermare una continuità che valesse ad impedire l’incolumità generazionale che andava ormai profilandosi». Morì il 27 marzo 1969 durante una dialisi. Nel suo studio, gli scaffali colmi di libri, il manifesto del ‘potere agli studenti’, un piccolo ritratto di Giovanni Gentile, il crocifisso.
Angelo Abis
(admaioramedia.it)