Fresco di stampa, l’agile volumetto di 90 pagine, opera del giornalista di sinistra Antonio Padellaro, vuole essere un omaggio ai segretari del Partito comunista italiano, Enrico Berlinguer, e del Movimento sociale italiano, Giorgio Almirante, due acerrimi nemici che, secondo il giornalista, tra il 1978 e il 1979, si sarebbero incontrati segretamente da quattro a sei volte, probabilmente per concertare una strategia comune contro i terrorismi (di destra e di sinistra) nel supremo interesse della nazione.
Padellaro presume che da questi incontri sarebbe sorta se non una vera e propria amicizia, quantomeno una reciproca stima e rispetto. Da qui il gesto inaspettato di Almirante che varcò la soglia della sede nazionale del Pci, nella mitica via delle Botteghe Oscure, per omaggiare la salma di Berlinguer, deceduto nel 1984. Infine il botto finale dell’autore di intitolare una piazza ad entrambi i leader politici.
L’obbiettivo del giornalista, accomunare in un unico riconoscimento pubblico, un politico fascista, per giunta ex di Salò, ed uno comunista, pare che voglia giustificare la ‘pacificazione’ di due persone che nella loro vita si sono identificate con Berlinguer e Almirante. Una di queste è sicuramente Padellaro, di cui è evidente la matrice berlingueriana del suo collocarsi a sinistra, l’altra è, invece, suo padre. Così racconta l’autore: “Mio padre Giuseppe… il quale del ventennio fu, inutile negarlo, acceso sostenitore… Volontario in Africa Orientale, nel 1943, alla caduta del regime sceglierà di andare con la Repubblica di Salò, e verrà assegnato al Ministero della Cultura popolare… Una scelta che spaccherà la mia famiglia… divisa tra il rifiuto della dittatura che aveva portato al disastro il paese, e un forse malinteso ma sincero senso dell’onore patrio infangato dal ‘tradimento’ dell’8 settembre…”. Ad acuire il dilemma di Padellaro ci pensò lo stesso Almirante che, congedandosi dal giornalista dopo una intervista, così si espresse: “Mi tolga una curiosità, ma lei per caso è parente di quel Padellaro che era con me a Salo?”.
Padellaro, nel suo pur acuto saggio, non ha ben colto il porsi di Berlinguer nei confronti del neofascismo post bellico e di come ciò abbia a che fare con la ‘sardità’ del leader comunista, vissuto politicamente in una terra che non aveva conosciuto, se non parzialmente, il fascismo continentale, bensì il ‘sardofascismo’, cioè quel movimento che, sotto l’egida diretta di Mussolini, aveva messo in camicia nera la quasi totalità dei sardisti. Aggiungiamo anche che la Sardegna, per sua fortuna, non conobbe l’invasione alleata e l’occupazione tedesca col seguito della guerra civile, con tutto il retaggio di odi, rancori e divisioni che ancora oggi permangono nel Continente. In questo contesto, il giovane Berlinguer iniziò la sua militanza comunista alla fine del 1943.
Il 13 e 14 gennaio 1944 a Sassari e Ozieri scoppiarono delle sommosse per la grave carenza di generi alimentari che la popolazione addebitava al Governo Badoglio ed agli Alleati. Le autorità contrastarono i tumulti con l’intervento dell’Esercito, operando decine di arresti fra cui il giovane Berlinguer. Durissima fu la presa di posizione della Concentrazione antifascista di Sassari di cui faceva parte, in rappresentanza del Partito d’azione, anche il padre di Enrico, Mario: “I disordini e i torbidi… non rispondono ad alcuna iniziativa né finalità dei partiti politici antifascisti che apertamente li sconfessano, perché sono dovuti ad elementi irresponsabili, talvolta incitati da persone compromesse col fascismo…”. Singolarmente in un memoriale del Comitato regionale fascista, clandestino, datato 17 marzo 1944 ed inviato alle autorità di Salò, si afferma: “Attualmente il malcontento negli ambienti popolari cresce di giorno in giorno… Se ne sono avute le prime manifestazioni con disordini successi in vari centri nel mese di gennaio… Tali manifestazioni sono state favorite dalle condizioni alimentari diversissime da quelle prospettate prima dalla propaganda esterna ed interna (furono organizzate dal Comitato comunista, nda)”. I neofascisti, se presenti nelle manifestazioni, non se ne assumono, neppure in parte il merito, anzi, con noncuranza, ma anche con un sottinteso positivo, riconoscono l’iniziativa a un comitato comunista. Certamente i giovani neofascisti sassaresi erano più informati della Concentrazione antifascista su quello che muoveva e agitava i giovani comunisti sassaresi, coi quali qualche frequentazione dovevano avere e, al di là delle differenze di fondo, una qualche concordanza di idee sul governo degli alleati in Sardegna.
Non è certo un caso che Enrico Berlinguer, negli anni 50, parlasse così a Roma ai giovani neofascisti: “Noi e voi siamo più vicini di quel che sembra… Questo qualcosa in comune vi è stato anche quando si combatteva al Nord. Ambedue lottiamo per l’Italia e per le riforme sociali e non per i vecchi gerarchi riaffioranti o per la classe dirigente Dc… anche i giovani neofascisti, i quali sognano una grande Italia, sanno che tutte le vecchie classi dirigenti tradiscono ancora la gioventù…”. Che non fosse un semplice espediente propagandistico, lo attesta Pino Rauti, allora dirigente nazionale del Msi: “Berlinguer era allora segretario dei giovani comunisti, e organizzò qualche dibattito con noi nelle sezioni del Pci. Io andai a parlare alla Casa del Popolo di Monte Sacro che era presidiata dai partigiani. Mi dissero: ‘Noi siamo disciplinati, Berlinguer ci ha detto che dobbiamo discutere con voi, e noi discutiamo. Il dibattito si svolge così: lei dice quello che vuole, il più rapidamente possibile, nessuno di noi pone domande, poi lei se ne va e ringrazi Iddio se esce vivo da questa sede… Dopo anni sapemmo che queste iniziative procurarono un sacco di guai a Berlinguer, che nel partito fu difeso solo da Togliatti”.
L’ultima grande manifestazione di stima e considerazione nei confronti del Msi, Berlinguer la esternò nel 1974. Ad un giornalista, che gli faceva presente come col ‘compromesso storico’ non ci sarebbe stata una forza di opposizione al governo, rispose:” Perché? All’opposizione non c’è forse il Msi?”. La frase pronunciata nei confronti di un partito allora escluso da ogni rilevanza politica dal cosiddetto ‘arco costituzionale’ indicava proprio a Giorgio Almirante la strada per uscire dall’isolamento e qualificarsi come forza di opposizione nel sistema democratico. Ma Almirante non colse, e non abbandonò la sua “opposizione al sistema”, intesa da tutti, e non a torto, come opposizione al sistema democratico, con tutto quello che ne conseguì.
Angelo Abis
(sardegna.admaioramedia.it)