La scoperta di due diversi Dna tra i resti attribuiti per 39 anni alla povera Maria Fresu ha suscitato clamore e interesse mediatico. Ma non tutti hanno compreso l’importanza della comparazione dei due Dna appena identificati con quello dei familiari della vittima scomparsa.
Dal nuovo processo sulla strage di Bologna sono già emersi due fatti ormai incontrovertibili. 1) Il cadavere di Maria Fresu, con certezza vittima innocente, non si è disintegrato. I periti della Corte di Assise lo hanno escluso utilizzando nella relazione per due volte un ‘non’ tutto maiuscolo che non necessita di precisazioni. Comunque vada, i giudici nella sentenza saranno chiamati a spiegare le ragioni del mancato ritrovamento del cadavere. 2) Nel 1980, in modo frettoloso e palesemente arbitrario gli investigatori attribuirono un insieme eterogeneo di resti umani alla vittima scomparsa. L’errore non può essere giustificato dall’averli trovati a distanza ravvicinata. Il lembo facciale-scalpo fu trasportato all’Istituto di Medicina legale (il reperto sarebbe stato asseritamente proveniente dall’ospedale Maggiore). Le dita della mano vennero rinvenute giorni dopo nell’area militare dei Prati di Caprara, dove erano state concentrate le macerie della stazione. Il femore a sua volta proveniva dall’ospedale Malpighi. Dalla comparazione dei due Dna individuati nei resti tumulati nella bara della Fresu è risultato che il lembo facciale-scalpo e le dita appartenevano a due donne diverse. Del femore invece non si hanno tracce. Delle due comparazioni con il Dna dei familiari della Fresu, quella che riguarda il lembo facciale-scalpo, assume una rilevanza straordinaria.
Per capire le ragioni occorre fare un passo indietro di 39 anni. Ferragosto 1980. Delle 85 vittime censite (una morirà in seguito dopo una lunga agonia in ospedale) manca un solo cadavere. Quello della Fresu. Ma l’amica sopravvissuta ha dichiarato alla Polfer che Maria era vicina a lei al momento dell’esplosione. La Procura di Bologna incarica il professor Pappalardo di sottoporre a perizia il lembo facciale-scalpo custodito in obitorio. Si tratta di un medico ritenuto da tutti onesto e competente. L’incarico peraltro appare molto semplice, anche se non esiste ancora l’esame del Dna. Il reperto infatti è un volto di una donna giovane cui manca solamente la parte superiore destra. L’immagine è raccapricciante. Pappalardo però sa, e lo scriverà nella perizia, che il reperto non può essere attribuito a nessuna altra vittima. Le due vittime di sesso femminile rimaste sfigurate in viso sono di gran lunga più anziane. E soprattutto erano di un gruppo sanguigno diverso da quello individuato nel lembo facciale-scalpo. Ma sarà proprio la questione del gruppo sanguigno a lasciare stupefatto lo stesso Pappalardo, che più volte ripete l’estrazione dei liquidi dal reperto pervenendo sempre al medesimo risultato. Gruppo sanguigno A, laddove la Fresu era di gruppo sanguigno 0. E lo era con certezza. Sia perché l’evidenza era attestata dalla cartella clinica dell’ospedale pubblico di Empoli, dove aveva partorito la povera bimba Angela, morta a sua volta nella strage. Sia perché era figlia di due genitori di gruppo sanguigno 0, ciò costituendo prova scientifica della fondatezza della cartella clinica. Come scriverà poi in modo chiaro e onesto nella perizia.
Pappalardo quindi si trova a scegliere tra un’alternativa obbligata: attribuire il lembo facciale-scalpo alla vittima scomparsa oppure ammettere l’esistenza di una ottantaseiesima vittima mai identificata. Eventualità questa ultima che gli investigatori gli assicurano essere impossibile. Pappalardo concluderà le operazioni peritali attribuendo il reperto alla Fresu. La discordanza dei gruppi sanguigni viene giustificata attraverso il principio della “secrezione paradossa”. Tale principio si basa sull’assunto per cui alcuni individui avrebbero nei liquidi tracce di un gruppo sanguigno diverso dal proprio. Secondo Pappalardo, la Fresu era una secretrice paradossa. Così venne risolto nel 1980 il giallo del lembo facciale-scalpo. Solo che da diversi decenni la secrezione paradossa è stata respinta dalla medicina come una vera e propria stupidaggine. Una credenza degli anni ’50, pacificamente ritenuta priva di ogni fondamento scientifico.
A tanto si aggiunga un ulteriore elemento problematico, esplicato in modo chiaro dagli odierni periti della Corte d’Assise di Bologna. Se “lembo facciale” era il termine usato per definire il reperto dal professor Pappalardo, gli odierni periti lo chiamano non a caso “scalpo”. Si tratta di un fenomeno ben noto agli esperti di esplosivi. Esso si verifica quando la vittima è particolarmente vicina all’esplosione. Il movimento di aria causato dall’esplosione è tremendamente violento nello spazio breve. L’aria entra a velocità a folle in linea tangenziale – nel caso in esame dall’orecchio destro – strappando letteralmente il volto dal corpo. Ma l’amica sopravvissuta della Fresu (alla Polfer nel 1980, a Repubblica nel 2015 e all’Adnkronos nel 2019) ha dichiarato che la donna scomparsa era accanto a lei al momento del botto. A una distanza assolutamente incompatibile con il fenomeno dello ‘scalpo’. Per tali ragioni la Corte d’Assise di Bologna ha ritenuto necessario disporre l’esame del Dna.
Chiunque sia onesto non può allo stato attuale prevedere l’esito della comparazione in corso. Entrambi i risultati sembrano possibili. Ma l’alternativa è obbligata. Ipotesi A: il lembo facciale-scalpo è della Fresu. Ciò significherebbe che il perito Pappalardo nel 1980 commise due errori. Errò prima nell’individuazione del gruppo sanguigno, scambiando 0 per A, e poi nel giustificare l’incongruenza attraverso il ricorso alla fantasiosa ‘secrezione paradossa’. Ciò significherebbe che l’amica della Fresu avrebbe un ricordo sbagliato dei fatti. La Fresu si sarebbe allontanata dalla figlia e dalle altre due compagne di viaggio trovandosi a passare accanto alla valigia proprio nell’istante della detonazione. In tal caso la Corte d’Assise dovrebbe spiegare nella sentenza dove sia finito il cadavere. Attribuire il mancato ritrovamento a manovre maldestre delle pale azionate dai soccorritori apparirebbe sinceramente una spiegazione non plausibile. Ipotesi B: il lembo facciale non è della Fresu. L’esame del Dna costituirebbe prova dell’esistenza di una ottantaseiesima vittima. Mai individuata e mai reclamata da nessuno per 39 anni. Una vittima posizionata proprio accanto alla valigia, al punto da essere quella in assoluto più vicina all’esplosivo detonato.
Valerio Cutonilli (autore del libro “I misteri di Bologna”)
(sardegna.admaioramedia.it)