Il latte non si butta, è un alimento prezioso, costa denaro e fatica, lo si regala (come a Gonnosfanadiga, Selegas ed altri paesi) o si trasforma in formaggio, come facevano i nonni e padri, e poi lo si da a chi ne ha bisogno o a chi lo vuole. Ma per terra non si butta nulla.
La protesta è sacrosanta, perché i prezzi dei prodotti agricoli, tutti, sono troppo bassi ed insufficienti a coprire i costi di produzione, ma con queste manifestazioni non si ottiene alcun risultato, se non quello di buttare una parte del proprio lavoro. Nel mondo dei campi l’anello debole sono i produttori, che lavorano bene, con ottimi risultati, ma non sanno vendere. Tra l’altro sono troppo disuniti e l’invidia, grande caratteristica delle genti sarde, mina qualunque forma di collaborazione. Inoltre, legare il prezzo del latte a quello del pecorino romano è un errore che penalizza, da decenni, gli allevatori sardi. Gli industriali, che fanno i loro interessi, con questo argomento hanno condizionato il mercato, facendo salire o scendere il prezzo a seconda del loro tornaconto.
“Il romano in America spunta tanto. Quindi il latte vale tanto”. Ma quando c’erano i contributi per l’esportazione quei premi non venivano calcolati e finivano, direttamente, sui conti dell’industria, con lauti guadagni a fine anno. Quando il mercato era pesante, perché le norme sanitarie erano più rigide o variavano i prelievi in entrata sul mercato statunitense, i mancati guadagli ricadevano sui fornitori del latte. Sempre la solita storia e gli allevatori, vincolati dalle caparre velocemente elargite a settembre-ottobre, non potevano e non possono fare altro che chinare la testa. Anche perché non hanno alternative. In teoria ci sarebbe lo sbocco delle cooperative, in altre regioni – ad esempio in Emilia Romagna, Trentino, Alto Adige, Veneto e Friuli – sono realtà di tutto rispetto, in grado di fare reale concorrenza e di condizionare gli industriali del settore. Ma in Sardegna, le cooperative protestano timidamente poi lavorano direttamente o ‘vendono’ le loro produzioni ai ‘padroni del mercato’. Che fanno bellamente ‘cartello’ e decidono, in tre o quattro, come a Thiesi, quanto “deve essere pagato il latte ovino, fresco, refrigerato, di buona qualità”. E chi non si allinea, a queste decisioni, corre brutti rischi, perché può uscire dal mercato e chiudere baracca.
La ‘grande’ iniziativa della Giunta regionale, per mettere ordine nel comparto ovi-caprino, è stata l’istituzione dell’Oilos, il comitato permanente benedetto anche dal Ministro dell’Agricoltura, del quale fanno parte i rappresentanti di allevatori, industriali, cooperative, consorzi di tutela, organizzazioni professionali agricole ed industriali. Sbandierato come “grande, storica e risolutiva conquista, occasione di sicuro sviluppo” ha immediatamente prodotto danni, altro che benefici. Per le feste, il prezzo degli agnelli, rigorosamente Igp (Indicazione geografica protetta) quindi sardi, è passato da 4-4,40 euro il chilo (peso vivo) dello scorso anno a 3-3,20 euro di quest’anno, ed il prezzo del latte è passato dagli 80-85 centesimi al litro della scorsa stagione (ma in alcuni casi il latte di maggio, giugno, luglio ed agosto non è stato pagato) agli attuali 60-55 centesimi. Un grande successo. E nei prossimi giorni, l’assessore regionale dell’Agricoltura, Pier Luigi Caria, in piena campagna elettorale perché vuole diventare consigliere regionale, presiederà una seduta urgente e straordinaria dell’Oilos, “per dare risposte certe alle pressanti richieste del mondo agricolo sardo”.
Amare considerazioni e domande finali: senza latte difficilmente si fa formaggio. Se di romano se ne produce troppo, come mai i ‘trasformatori’ ed i consorzi di tutela non ne limitano la produzione? Gli altri tipi di pecorino ‘tirano’, perché non diversificare? Il mercato statunitense è quello tradizionale, ma il romano viene usato per tagliare gli amorfi formaggi locali. Perché non modernizzare il romano rendendolo anche ‘da tavola’ e non solo da grattugia? Nel mondo non ci sono altri mercati sui quali entrare, puntando sempre su una migliore qualità e su tipi diversi? Ad esempio, i molli, le caciotte, i semicotti? Perché non proporre agli industriali di entrare nelle loro aziende e correre, insieme, il ‘rischio d’impresa’? Perché non dare vita a cooperative che siano, effettivamente, imprese economiche efficienti, a difesa dei piccoli produttori? Domande, finora, senza risposta, perché è più facile protestare, urlare, sollecitare qualche intervento a Governo nazionale e Giunta regionale, che in piena campagna elettorale regaleranno, benevolmente, le promesse del caso. Tanto assicurare, garantire, impegnarsi, non costa niente.
Cochise
(admaioramedia.it)