Cominciamo con ordine: il pecorino romano è tipico prodotto sardo, ma si chiama romano perché lo consumavano prevalentemente i romani. Ora, invece, lo mandiamo specialmente negli Stati Uniti, dove viene grattugiato e mischiato con altri formaggi più nobili, ma meno salati e saporiti. Ma continua a chiamarsi romano. Negli Usa mandiamo quantità di prodotto non sempre di grande qualità, tanto è vero che ogni tanto qualche partita viene bloccata dalla Sicurezza Alimentare e rispedita indietro, ma fortunatamente sono casi sempre più rari. Il dato preoccupante, se le cifre e stime rese pubbliche questi giorni sono vere, è la costante crescita della produzione di questo formaggio, in preoccupante controtendenza con la richiesta del mercato che, solitamente, si aggira attorno ai 200/220 mila quintali l’anno.
Perché se ne produce sempre troppo? Perché ora gli ‘industriali’ lo producono all’estero, poi lo ‘regionalizzano’ e lo vendono nei mercati tradizionali? Nessuno ‘scandalo’, ad ogni modo, perché l’industria Pinna di Thiesi, forse la migliore dell’Isola, parte del suo romano lo fa, grazie a trentamila pecore sarde, nelle più accoglienti, e meno costose campagne rumene. In Sardegna dati ‘ufficiali’ non esistono; le altre stime non sono attendibili, da quando Soru ha deciso che l’Osservatorio economico della Sardegna era “assolutamente inutile”. La realtà, in ogni caso, è ben diversa da quella che ci raccontano, da una ventina di anni, questi politicanti da strapazzo, che dicono di governare e che stanno, invece, trasformando l’isola in un deserto, sociale ed economico. Qui da noi, da tempo, entra di tutto, anche latte, quando le produzioni locali sono scarse o costano troppo. Ed il latte sardo, anche vaccino, finisce, tranquillamente, nelle aziende di trasformazione del Lazio, della Toscana, perfino della Lombardia e dell’Emilia Romagna. Per non parlare di vino, olio, miele, carni, ortaggi di ogni tipo e varietà, portati nell’isola e spacciati per sardi, “tanto il mercato assorbe, basta che il prezzo non sia eccessivo”. Ogni tanto, però, i custodi della ‘sardità’ si svegliano e fanno bloccare un carico di pecorino ‘romano sardo-rumeno’, denunciando anche condizioni igieniche “terribili” nel trasporto, poi le forme incriminate vengono immediatamente “rilasciate” e le condizioni igieniche dei mezzi frigo giudicate “perfette”. Come era successo con un ‘terribile’ carico di suini provenienti dall’Olanda e destinati ad un noto salumificio, ma anche in quella occasione la qualità delle carni e le condizioni igieniche dei mezzi sui quali viaggiavano risultarono “perfettamente a norma”.
Usiamo le parole per quello che significano realmente. Troppo spesso si fa demagogia o terrorismo psicologico. L’agricoltura sarda è in coma profondo da una ventina di anni e questi personaggi, che fanno finta di essere grandi politici, con le loro assurde scelte non fanno altro che aggravare la situazione. Da questa crisi non se ne uscirà, probabilmente, ma le cose cambieranno quando cambieranno le idee e le teste dei sardi. Mai. Sino ad allora, cerchiamo di ragionare con obiettività, nell’interesse generale. Delocalizzare è ammesso per l’industria, ma l’agro industria, invece, non può spostarsi. Allora creiamo qui, in Sardegna, le stesse condizioni (più o meno) che ci sono nelle altre parti d’Europa. E smettiamo di dire che i nostri prodotti sono sempre i migliori, anche nelle altre parti del mondo sanno produrre cose buone. E la tanto elogiata, o vilipesa, pecora sarda (veramente la migliore del mondo) lasciamola in pace. Perché il problema non sono le pecore, ma chi le ‘controlla e comanda’, in tutti i sensi.
Cochise
(admaioramedia.it)
6 Comments
FaberSardo
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webnauta59
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