Sedici mesi dedicati all’Anno Gramsciano, così ha deciso la Giunta regionale della Sardegna, sfruttando il tempo che intercorre tra due ricorrenze: il 125° anniversario della nascita (22 gennaio 2016) e l’ottantesimo dalla sua morte (27 aprile 2017). Ci saranno iniziative culturali in tanti comuni della Sardegna, sopratutto quelli nei quali è vissuto l’intellettuale e dove ha sviluppato la sua attività come politico, giornalista e pensatore. “Bene ha fatto la Regione – ha commentato Giancarlo Lehner, giornalista e scrittore – Vorrei, però, che finalmente sia l’occasione per affrontare un itinerario di verità sulla tragedia di Antonio Gramsci, su ogni aspetto di quella amara sorte: dalle circostanze dell’arresto sino alle strane e contraddittorie testimonianze sul suo decesso. Non credo ci sia dolore più potente del sentirsi tradito e colpito non dal nemico, ma dagli amici. Se non sarà un anno di verità, bensì di menzognera propaganda, allora il povero Nino sarà stato per l’ennesima volta strumentalizzato, ferito e rinnegato. Perché la verità non viene cercata? Qualcuno l’ha cercata, da Gerratana a Fiori, ma solo in parte, da Nieddu sino al sottoscritto; quanti, invece, hanno costruito le loro fortune politiche e professionali sulle menzogne è certo che non avranno mai il coraggio di pentirsi e di emendarsi”.
Lehner (ex corrispondente de “L’Avanti!” da Mosca) è stato tra i primi ad aver accesso agli archivi misteriosi dell’ex Unione Sovietica, appassionandosi alla tragica vicenda di tanti comunisti italiani che per fuggire dall’Italia fascista trovarono la morte a Mosca (dei quali parlò nel volume “La tragedia dei comunisti italiani: le vittime del Pci in Unione Sovietica”) ed alla storia di Gramsci, del suo rapporto non idilliaco con Togliatti, che ritiene alla base delle circostanze non troppo chiare della sua morte, e dei rapporti interni alla sua famiglia, pubblicando “La famiglia Gramsci in Russia”, che comprende anche il diario della nuora Margarita, prima moglie del figlio Giuliano, nel quale si può leggere: “Nelle prigioni sovietiche era reclusa una spia che il governo italiano sarebbe stato disposto a scambiare con mio suocero. L’operazione non fu condotta in porto: per i servizi segreti sovietici e per la macchina della propaganda comunista era molto più conveniente che Antonio seguitasse a restare in prigione in Italia”.
I guai di Gramsci cominciano nel 1926, quando decide di mettere nero su bianco, in una lettera da inviare a Mosca, il suo pensiero critico sui ‘metodi staliniani’: “Il ruolo di Togliatti è chiaro e trasparente. Quando, nell’ottobre 1926, si trovò davanti al cruciale dilemma (rischiare di persona, restando fedele alle indicazioni del segretario del partito? Oppure, usurparne il posto, farsi gran secchione davanti a Stalin e Bukharin, allora alleati per reprimere tutti gli altri protagonisti dell’Ottobre, condannandolo ed esponendolo alla taccia di controrivoluzionario?), Palmiro non ebbe esitazioni e, anticipando la filosofia di Mao, bastonò Nino che già affogava”. L’8 novembre Gramsci fu arrestato: “Il primo a considerarlo non un incidente, bensì una precisa volontà scaturita da Mosca di consegnarlo alla polizia fascista, impedendogli, così, di recarsi al congresso allargato del Komintern, dove avrebbe ripetuto le perplessità e le critiche all’operato della maggioranza bolscevica, espresse nella lettera dell’ottobre 1926, fu proprio Antonio Gramsci. Basterebbe leggere quello che ha lasciato scritto, per non nutrire più alcun dubbio. Coloro che hanno basato la loro fortuna anche a livello esistenziale ed accademico, non potendo negare le chiarissime accuse di Gramsci, a volte, lo hanno addirittura presentato come matto. Si dovrebbero vergognare”. Tanto che, come racconta Massimo Caprara (segretario di Togliatti per vent’anni e deputato comunista per quattro legislature) nel suo libro “Gramsci e i suoi carcerieri“, il magistrato militare del Tribunale speciale, il cagliaritano Enrico Macis, che lo interrogava, gli disse: “Onorevole Gramsci, lei ha degli amici che certamente desiderano che lei rimanga un pezzo in galera”, alludendo ad una lettera inviata nel 1928 dal dirigente del Pci Ruggero Grieco, con timbro e francobollo sovietici, che diventerà una prova schiacciante per la condanna di Gramsci. Comunque, per essere un pericoloso oppositore, secondo Lehner, è falso raccontare che il Regime abbia infierito su Gramsci: “Mussolini, che, forse, ricordava il giovane socialista mussoliniano nel 1914 (mussoliniano perché ne condivise la palinodìa dal neutralismo assoluto all’interventismo), che addirittura inviò un suo articolo all’appena fondato “Popolo d’Italia”, si comportò col prigioniero Gramsci, divenuto suo fiero avversario politico, in maniera, direi, sorprendente, evitando non solo ogni accanimento, che invece fu proprio degli stalinisti carcerati capaci di prendere il grande sardo addirittura a sassate, ma facendo sì, occupandosene personalmente, che i direttori delle carceri accogliessero le sue richieste”. Peraltro, la sua morte avvenne in una costosa cinica privata romana, la Quisisana ai Parioli, e qualcuno avrà pur pagato la sua degenza per quasi due anni.
Nella vicenda gramsciana, c’è anche un ruolo importante di alcune donne, in particolare moglie e cognata: “La moglie, per sopravvivere e salvaguardare i figli, dovette cedere alle pressioni di Togliatti e fu anch’essa nella schiera dei ‘condannatori’, benché ‘inconsapevole’, mentre la cognata Tatiana, pur cominciando a curarsi del prigioniero con finalità spionistiche, alla fine mostrò d’essersi affezionata, sino al punto di disubbidire ai dirigenti stalinisti del PCd’I e, anzi, di porsi in netta contrapposizione. Tatiana, poi, pagò con la vita questo suo scatto di umanità e di non conformismo. La vulgata stalinista dice che morì di pellagra, ma non spiega come mai, unica della sua famiglia deportata in Asia, defunse a Frunze, nel Kirghizistan”. Dopo la morte di Gramsci, avvenuta secondo Lehner in circostanze sospette (“Il dossier redatto dalla Stella Blagoeva sul conflitto Gramsci-Togliatti parla espressamente del progetto di rapire Antonio dalla clinica Quisisana”), Togliatti torna protagonista nella gestione dei numerosi scritti dell’intellettuale sardo. Il leader comunista, appena quindici giorni dopo la sua morte (12 maggio 1937), scrisse al centro estero del Pci: “Vi prego: 1° di non prendere voi nessuna iniziativa di pubblicazione di lettere e altro materiale inedito senza accodo con me; 2° di mandarmi subito (in copia) tutte le lettere che sono nel vostro archivio”. E ci vollero dieci anni per la prima pubblicazione delle sue lettere (con Einaudi nel 1947), verosimilmente sforbiciate, aggiustate, emendate ed adattate al progetto politico comunista del tempo. Una manovra che Lehner spiega così: “Il culto del binomio Gramsci e Togliatti, sulla scia di Marx-Engels e di Lenin-Stalin, fu una magistrale, eppur diabolica trovata, capace di trasferire attraverso la proprietà transitiva al condannatore Togliatti tutti i meriti e l’intelligenza del condannato, abbandonato, tradito Gramsci. Tanto per precipitare nelle azioni più riprovevoli del Pci, si vedano, poi, gli atti del tribunale italiano (pubblicati anche su ‘La famiglia Gramsci in Russia’), certificanti, nel 1996, che i diritti d’autore delle opere di Gramsci non appartenevano alle Botteghe Oscure, che, invece, dal 1937, li incamerò e lucrò, derubando, di fatto, vedova ed orfani Gramsci, costretti alla miseria, quando in teoria erano miliardari. Non solo condannatori, ma anche ladri, dunque, codesti falsi esaltatori di Nino”.
Gramsci, che seppure “internazionalista – scrisse Caprara – sempre proclamò la propria sardità”, per Lehner è addirittura “più sardo che patriota sovietico”, tanto che aveva già manifestato la sua decisione, una volta scontata la pena, di stare in Sardegna, esattamente a Santulussurgiu, dove aveva frequentato il Ginnasio: “La sardità è una costante in Gramsci. Per sardità intendo, in primo luogo, il valore dell’amicizia e della lealtà. Io stesso l’ho sperimentata, vivendo nel liceo classico Virgilio di Roma, con due compagni di scuola Porcu e Cherchi (purtroppo ricordo solo i cognomi), amici per la pelle, pronti a sacrificarsi per me. Va rimarcato che mentre in Urss si condannavano a morte o al Gulag i cosiddetti bordighiani e Amadeo Bordiga veniva demonizzato con calunnie sanguinose, Antonio rimase sempre amico leale ed affettuoso col fondatore del PCd’I. In più, per sardità, intendo coerenza, dignità, onestà intellettuale, preservate, nonostante i rischi, con estrema, esemplare caparbietà. Il sardo Gramsci non cede, neanche davanti a Stalin, così come, con eguale coraggio e coerenza, aveva fatto il napoletano Bordiga. Il fatto che Gramsci, una volta libero, avesse deciso di rimanere nella Sardegna fascista, piuttosto che nella presunta ‘patria del socialismo’, non è soltanto segnale d’affezione profonda per la propria isola, ma anche di consapevolezza di quale inferno fosse in realtà l’Urss di Stalin e di Togliatti”.
Altra circostanza, spesso sottaciuta, è quella raccontata da un cardinale sardo, che riferì di una sua conversione al cattolicesimo: “Da storico abituato a confrontarmi con le fonti ed i documenti, non posso affermare e neppure negare l’ipotesi, ritenendola tutt’al più probabile, ma non storicamente provata. Tuttavia, monsignor Luigi De Magistris, già tra i responsabili del Tribunale vaticano della Penitenzieria Apostolica, dopo l’uscita del mio libro, attraverso la radio vaticana, rivelò: «ll mio conterraneo Gramsci aveva nella sua stanza l’immagine di Santa Teresa del Bambino Gesù. Durante la sua ultima malattia, le suore della clinica dove era ricoverato portavano ai malati l’immagine di Gesù Bambino da baciare. Non la portarono a Gramsci. Lui disse: Perché non me l’avete portato? Allora gli portarono l’immagine di Gesù Bambino, e lui la baciò. E’ morto con i Sacramenti, è tornato alla fede dell’infanzia. La misericordia di Dio santamente ci ‘perseguita’. Il Signore non si rassegna a perderci».” Comunque, al di là dei misteri che ruotano intorno all’arresto ed alla sua morte e dei silenzi imbarazzati di una certa storiografia, di Gramsci resta un’importante eredità culturale e politica: “Un’eredità grande e, talora, di spessore civico e pedagogico. In primo luogo, l’esempio sublime di onestà intellettuale, coraggio, resistenza al Potere, carattere indomito, coerenza e senso del proprio onore. Un’eredità attualissima, inoltre. Si pensi che il primo in assoluto a metterci in guardia dal Frankenstein travestito da progresso fu proprio il giovane socialista Gramsci che, il 6 giugno 1918, scrisse sull’Avanti! qualcosa che oggi suonerebbe come condanna anticipata, di quasi un secolo, dell’utero in affitto dei Vendola e degli Elton John. Ecco un brano di quell’articolo: «Il dottor Voronof ha già annunziato la possibilità dell’innesto delle ovaie. Una nuova strada commerciale aperta all’attività esploratrice dell’iniziativa individuale. Le povere fanciulle potranno farsi facilmente una dote. A che serve loro l’organo della maternità? Lo cederanno alla ricca signora infeconda che desidera prole per l’eredità dei sudati risparmi maritali. Le povere fanciulle guadagneranno quattrini… Venderanno la possibilità di diventar madri: daranno fecondità alle vecchie gualcite… I figli nati dopo un innesto? Strani mostri biologici, creature di una nuova razza, merce anch’essi, prodotto genuino dell’azienda dei surrogati umani…».”
Fabio Meloni
(admaioramedia.it)
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