Negli ultimi quattro anni il prezzo del grano ha imboccato una lunga discesa costringendo i cerealicoltori a produrre in perdita. Dai 30 euro a quintale del 2014 ha cominciato a calare: 27 euro l’anno successivo per poi crollare a 21 nel 2016 (0,21 centesimi al chilo) e l’anno scorso è stato pagato tra i 21 e i 18 euro. Produrre un quintale di grano costa 24 euro (24 centesimi al chilo). Questi dati sono stati forniti oggi dalla Coldiretti, durante la presentazione dell’accordo di filiera sul marchio per il pane Civraxu di Sanluri, in Sardegna.
Nelle scorse settimane, in Sicilia era montata la protesta per prezzo del grano, con gli agricoltori scesi in strada per “l’irrisorio prezzo di 20 centesimi al chilo”, quanto viene pagato ai produttori di grano, secondo Coldiretti Agrigento, che lancia un allarme: “Senza un contratto di filiera – dice il presidente Ignazio Gibiino – nei prossimi anni gli ettari dedicati alla coltura del grano in Sicilia si ridurranno notevolmente con la conseguente chiusura di molte aziende e la riduzione di molti posti di lavoro”. Tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900, la Sicilia era la regione in cui si coltivava più frumento duro in Italia, seguita subito dopo dalla Sardegna:158.000 ettari su 1,29 milioni totali (dato Laore). Oggi è la Puglia la prima regione con 390.000 ettari e seconda la Sicilia. La coltivazione del grano duro in Sicilia si estende su circa 320.000 ettari. Negli ultimi 20 anni, la cerealicoltura sarda ha perso i due terzi dei produttori e della superficie coltivata. Dai dati del 2016 la Sardegna è scesa al decimo posto in Italia, con soli 36.399 ettari su un totale nazionale pressochè simile (1,3 milioni). Ma è un dato in continuo aggiornamento in perdita.
“Questo ci fa capire ancora meglio – dice Giorgio Demurtas, presidente di Coldiretti Cagliari – la capacità di aggregare, di avere un marchio che ti identifica e distingue il prodotto, che tutela sia chi lo produce che chi lo consuma. E la possibilità di accorciare la filiera lungo la quale spesso si annidano degli speculatori sia su chi lo produce che si chi lo consuma”.
In tutto questo Anacer (Associazione nazionale cerealisti), sulla base delle rilevazioni Istat, stima che le importazioni in Italia di cereali, semi oleosi e farine proteiche nel 2018 sono aumentate di 414.000 tonnellate rispetto al 2017, passando da 20,6 a circa 21 milioni di tonnellate (+2%) segnando un nuovo record delle quantità importate, per un valore complessivo di 5,5 miliardi (+4% rispetto al 2017). Sono risultati in aumento in particolare gli arrivi di grano tenero (+337.100 tonnellate, di provenienza soprattutto dai paesi comunitari) e le importazioni di granturco (+336.800 tonnellate, di provenienza soprattutto dai paesi terzi). Le esportazioni complessive dall’Italia del settore cerealicolo nell’intero 2018 subiscono invece una contrazione nelle quantità, diminuendo di 497.000 tonnellate rispetto al 2017 (-10,2%) per un totale di 4,4 milioni di tonnellate. L’equivalente in valore di 3,4 miliardi risulta in lieve calo rispetto al 2017 (-1,7%).
Con circa 1,8 milioni di tonnellate si confermano ai livelli record del 2017 le esportazioni di pasta. I movimenti valutari relativi all’import/export del settore cerealicolo hanno comportato nell’intero anno 2018 un esborso di valuta pari a 5 miliardi e 538,4 milioni di euro (5.324,8 nel 2017) e introiti per 3 miliardi e 378,5 milioni (3.435,6 nel 2017). Pertanto il saldo valutario netto è pari a -2 miliardi e 159,9 milioni, contro -1.889,2 milioni nel 2017. (red)
(sardegna.admaioramedia.it) (in collaborazione con sicilia.admaioramedia.it)