A guerra finita, Carbonia venne a trovarsi in una situazione particolare rispetto alle altre città sarde. Dopo l’armistizio, che fotografava una grave crisi produttiva e di smercio del carbone dovuta alle circostanze belliche, le miniere passarono sotto il controllo degli alleati, che pur non essendo arrivati in Sardegna come occupatori o liberatori (secondo i gusti), poterono, in forza dei poteri della Commissione alleata di controllo, sovraintendere alla gestione del giacimento carbonifero, istituendo nel centro minerario una apposita sezione di detta Commissione.
Gli alleati, per proprie esigenze belliche, puntarono subito all’aumento della produzione incrementando la forza lavoro che passa dalle circa 4.000 unità del 1944 alle 11.000 del 1945. Ma lo slogan, tuttora duro a morire, secondo cui gli americani, oltre ad averci liberati dal fascismo, ci avrebbero saziati con abbondanti erogazioni di generi alimentari, pane bianco compreso, non fu altro che un espediente propagandistico. Ne fu testimone l’allora ministro socialista Giuseppe Saragat, che in visita alle miniere nel settembre 1944 così si espresse:”Ciò che non ci saremmo mai aspettati di trovare a Carbonia… è un proletariato che per le tragiche condizioni in cui versa… mi ricorda gli schiavi delle piantagioni caffè brasiliano, o i sevi della gleba… Gli uomini che uscivano dai pozzi non avevano nulla di umano… Dei corpi scheletrici ricoperti da stracci immondi sfilavano senza una parola, senza una protesta… questi uomini che uscivano dalla miniera… il cui suolo è tutta una pozzanghera erano scalzi… Da un gruppo di minatori si staccò uno di loro che, con tono imperioso, chiese: ‘chi è il ministro?’ Alla mia risposta il minatore… accennando ai suoi piedi nudi, ai suoi stracci immondi, con la voce strozzata dallo sdegno, ‘sono italiano!’ mi disse”.
Con la fine del conflitto e la ripresa degli scambi commerciali con il continente la situazione di Carbonia volse al meglio, stante anche il fatto che il carbone Sulcis era l’unico disponibile sul mercato nazionale. Di pari passo, procede la strategia del Pci di stendere la propria egemonia sulle masse operaie di Carbonia. I comunisti in cambio dell’appoggio dato al governo Badoglio nel 1944, ottengono da quest’ultimo che gli ex sindacati fascisti, con beni, iscritti e dirigenti, vengano conglobati nella rinata Cgil. Subito a Cagliari viene nominato commissario dei sindacati ex fascisti, il comunista Peppino Frongia. Mentre a capo della Camera del lavoro di Carbonia viene posto il comunista Mario Giardina e, dopo il suo arresto, il senatore del Pci, Velio Spano, intoccabile in quanto provvisto dell’immunità parlamentare. Presto l’apparato del Pci creò nelle miniere un clima di terrore. Lo racconta, anni dopo, Dino Ferino, operaio della Carbonifera sarda e promotore del sindacato Cisl tra i minatori: “Si respirava nei diversi cantieri, un clima di vera e propria paura nel dichiarare un qualche dissenso nei confronti degli ordini degli attivisti comunisti della Cgil. Si trattava di un’opera di intimidazione, prepotente e spesso violenta, non solo su quanti fra gli operai, mostravano perplessità a eseguire i loro ordini (erano i tempi dei cosiddetti scioperi spontanei…) ma anche nei confronti degli stessi dirigenti minerari, resi quasi succubi ai voleri della Cgil. In cantiere e fra gli operai, i sindacalisti comunisti contavano più dei sorveglianti e dello stesso direttore”.
La violenza comunista raggiunge il suo culmine il 29 gennaio 1947, quando una folla di lavoratori cinge d’assedio Villa Sulcis, sede della direzione della Carbonsarda, disarma i carabinieri che la presidiavano e, dopo aver invaso gli uffici, obbliga il direttore Rostanda raggiungere il Comune dove, alla presenza del sindaco Renato Mistroni, del segretario della Camera del lavoro, Antonio Selliti, e del Comitato di agitazione, viene costretto a sottoscrivere un documento dove dichiara di approvare le richieste del Comitato, di fronte alle forze dell’ordine attonite ed impotenti. Il fatto era di una gravità inaudita, ma i promotori confidavano ancora una volta sulla protezione di Togliatti, ministro di Grazia e giustizia del Governo. Ignoravano però, che a livello nazionale, la Dc aveva già deciso di rompere l’alleanza con i comunisti e i socialisti, era in atto la scissione socialista ad opera di Giuseppe Saragat, e, dulcis in fundo, proprio a ridosso dei gravi fatti di Carbonia, il 2 febbraio 1947, viene nominato ministro degli interni il democristiano Mario Scelba, che sarà la bestia nera della sinistra almeno sino alla metà degli anni ’50. La stessa notte del 29 gennaio, Carbonia fu circondata da ingenti contingenti di polizia e carabinieri e, pare, anche dell’esercito. Si procedette a decine di perquisizioni, furono arrestate 21 persone, imputati di istigazione a delinquere, molte altre si resero latitanti.
Poi, ci fu il fatidico 14 luglio 1948, quando lo studente siciliano Antonio Pallante ferì con tre colpi di pistola il segretario del Pci Palmiro Togliatti. L’avvenimento innescò una spirale pericolosissima da guerra civile, perché da un lato le sinistre pensarono che l’attentato rientrasse in quella strategia che aveva avuto inizio nel maggio 1947, con l’estromissione, per la prima volta a partire dal 1944, dal governo dei comunisti e dei socialisti. Strategia corroborata dal risultato delle elezioni politiche del 1948, che aveva rappresentato una sonora e inaspettata sconfitta del Fronte popolare. Scelba, forte di questa vittoria, aveva stretto i freni sulle manifestazioni politiche e sindacali delle sinistre: a Milano, il 25 aprile 1948, festa della liberazione, proibì che le associazioni partigiane celebrassero la ricorrenza in piazza e le confinò all’interno del Castello sforzesco. A fine manifestazione, i partigiani tentarono il corteo, ma furono duramente caricati e la cosa si concluse con un morto. Il Governo, dall’altro, paventava che l’attentato a Togliatti potesse essere il pretesto per l’assalto al potere da parte dei comunisti. Effettivamente, il giorno stesso dell’attentato, la Cgil proclamò lo sciopero generale, ci furono occupazioni di fabbriche e di edifici pubblici, assalti alle caserme, disarmo delle forze dell’ordine, ricomparsa in piazza di gruppi partigiani armati. In realtà, oggi, si può affermare che il Pci non aveva intenzioni eversive e che non riuscì a controllare le proprie masse. Cosa che invece riuscì a Scelba, aiutato anche dal ministro della difesa Randolfo Pacciardi, che mobilitò l’esercito per liberare Genova caduta in mano comunista. Il bilancio di quelle giornate fu di 16 morti (di cui 9 agenti e carabinieri). Molte furono morti atroci, come quella di un giovane missino di Pisa, linciato dai manifestanti. I feriti furono 200, mentre gli arresti si contarono a migliaia.
A Carbonia, appena si sparse la notizia dell’attentato, a seguito dello sciopero nazionale proclamato dalla Camera del lavoro, gli operai abbandonarono i posti di lavoro per riunirsi in piazza Roma, davanti alla sede del Comune. Alla folla parlano il sindaco Mistroni, il segretario del Psd’Az locale, Silvio Lecca, e il segretario della Camera del lavoro Sellitti. Non pronunciarono parole dolci, visto che in seguito furono incriminati e condannati per istigazione a delinquere. Dopo il comizio, un corteo di 4-5000 persone si diresse in corso Iglesias presso la sede del Msi con intenti non certo pacifici. Dalla sede uscì, Sebastiano Pomata, un ex combattente dell’esercito della Repubblica sociale italiana, pistola in pugno, sparando alcuni colpi in aria causò un fuggi fuggi generale. Prima che i comunisti si riprendessero, Pomata fu caricato su una camionetta dei carabinieri e portato in salvo. I comunisti si rifecero su un presunto missino, un certo Cresci, bastonandolo a sangue. Ma la cosa non finì li. Gruppi di facinorosi devastarono e incendiarono le sedi delle Acli, dell’Azione cattolica, del Partito Socialdemocratico.
L’episodio più grave avvenne a Bacu Abis, frazione di Carbonia, dove i manifestanti massacrarono di botte, tanto da determinarne il ricovero in ospedale in gravi condizioni, Luigi Fiorito, un reduce dei lager tedeschi, esponente della corrente cristiana della Cgil. Non fu certo un caso se qualche settimana dopo la componente cristiana della Cgil, che già aveva condannato lo sciopero generale del sindacato per l’attentato a Togliatti, creerà la Cisl, rompendo così l’unità sindacale che si era creata nel 1944. La risposta delle autorità non fu, come nel 1947, immediata. Si fece attendere e non colpì nel mucchio. Il 27 e il 28 agosto furono arrestati 12 dirigenti della Cgil e del Pci, fra cui il sindaco Mistroni e il segretario della Camera del lavoro Selliti, che, resisi latitanti, furono fatti espatriare in Cecoslovacchia. Il 2 settembre viene arrestato il segretario (lussiano) del Psd’Az Lecca.
Nel dicembre 1949, la Corte di Assise di Cagliari riterrà responsabili di quei fatti 44 persone, condannandole ad un totale di 108 anni di carcere, fra loro anche l’avvocato Umberto Giganti, futuro sindaco di Carbonia, condannato a 4 anni. Tutto l’apparato del Pci e del sindacato veniva liquidato. Il partito corse ai ripari nominando segretario della Camera del lavoro, il senatore Velio Spano, fornito di immunità parlamentare. Mal gliene incolse. Scelba inviò a Carbonia un forte reparto celere con a capo il commissario Giovanni Pirrone, ex questore di Sondrio, comandante di una Brigata nera durante la Rsi, condannato a trent’anni per collaborazionismo, poi amnistiato e riammesso in servizio. Pirrone passò alla storia per il trattamento rude che esercitò contro Spano, al quale in un comizio tolse la parola per frasi ritenute offensive pronunciate contro il Governo. Velio Spano non la prese bene ed esclamò: “Badi, io sono un senatore della Repubblica”. Risposta secca di Giovanni Pirrone: “Di repubblica conosco solo quella di Salò”. Così andavano le cose nei primi anni della repubblica nata dalla resistenza.
Angelo Abis
(admaioramedia.it)