Il nome di Attilio Deffenu richiama alla memoria la figura di un giovanissimo intellettuale che per primo impostò in termini assolutamente nuovi, agli albori del ’900, l’annosa questione di come far uscire la Sardegna dal suo stato secolare di miseria economica e sociale.
Celebre la sua affermazione: «Per la Sardegna, in particolare, l’abolizione del protezionismo significherebbe l’avviamento alla fine di quella politica folle di distruzione che ha fatto un deserto della nostra Isola, che ha isterilito le nostre fonti produttive […] perpetuata quella fase della nostra economia che non conosce la crudele strapotente ma divina tirannia del capitale Re della produzione, che crea forme e valori, che moltiplica la ricchezza e con essa l’intensità e la molteplicità e la possibilità d’appagamento dei bisogni umani, che alimenta le vene e i polsi del corpo sociale della sua linfa impetuosa, fecondante, trasformatrice! La Sardegna incomincerà a vivere capitalisticamente. Poiché ci sembra chiaro che la cappa di piombo del sistema protettivo agisca nel senso d’impedire o allontanare il sorgere della vaticinata era capitalistica nell’Isola». E ancora: «Meglio una Sardegna schiava del capitalismo piuttosto che incapace d’ogni sforzo per un’astenia derivante dalla mancanza di scambi, di medio circolante, di ogni forma moderna di produzione». Non era cosa da poco per uno che si era laureato in giurisprudenza con una tesi su Carlo Marx e che aveva svolto la sua prima attività politica nel Partito socialista. Queste idee furono espresse e approfondite nella rivista “Sardegna” che Deffenu fondò nel 1913. La rivista ebbe breve durata, ma collaboratori del calibro di Grazia Deledda, Gavino Gabriel, Paolo Orano, Gaetano Salvemini, Ettore Pais.
Attilio Deffenu era nato a Nuoro nel 1890. Appena laureato si trasferì a Milano, dove divenne il legale dell’Unione sindacale diretta da Filippo Corridoni. Nella capitale lombarda partecipò alla campagna interventista, fondando con Mussolini e i sindacalisti rivoluzionari il Comitato dei Fasci d’azione interventista rivoluzionaria di Milano.
L’interventismo di Deffenu non era però di marca strettamente nazionalista, ma poggiava sulla convinzione che l’egemonia della Germania sull’Europa, cioè di una potenza conservatrice e reazionaria, avrebbe avuto conseguenze nefaste. Non solo, Deffenu, come Mussolini, riteneva che ogni possibile rivoluzione della società italiana (e sarda), dovesse passare inevitabilmente attraverso l’esperienza bellica. Ma Deffenu non si limitò solo a professare teoricamente la tesi dell’intervento. Non appartenendo alla razza degli eroi ‘armiamoci e partite’, si arruolò come volontario nel 68° Fanteria, convinto di poter partecipare da subito al combattimento. Gli andò male. Non fu spedito in zona d’operazioni, perché soffriva di un disturbo cardiaco, né, ancora peggio, fu ammesso al corso ufficiali, in quanto schedato come ‘sovversivo’. Sotto stretta sorveglianza poliziesca, viene spedito prima a Cagliari e, successivamente ad Iglesias e Oristano. Da lì riesce a farsi ammettere al corso ufficiali, che frequenta a Modena. Poi, anche con qualche raccomandazione, ottenuta la nomina a sottotenente, fu trasferito, proprio alla vigilia di Caporetto, al 152° Fanteria, Brigata Sassari, come ufficiale addetto alla propaganda.
Ebbe dal suo comando l’incarico di studiare i temi secondo i quali si sarebbe dovuta impostare la propaganda nei confronti dei soldati sardi. In proposito, Deffenu così scriveva: «Il soldato sardo non può – sotto alcun riguardo – essere assimilato al soldato di altre regioni d’Italia. Ragioni di carattere, ambiente storico e sociale diversissimo, in particolare modo l’isolamento nel quale il popolo sardo è vissuto dall’epoca dell’unificazione politica della penisola […] ne fanno un soldato sui generis […] verso il quale, in conseguenza, l’opera di propaganda […] deve assumere forme diverse e atteggiamenti propri […]. Altra circostanza di cui giova tener conto è la grande influenza che ha esercitato sul morale del soldato della nostra brigata […] quell’aureola di fama e di gloria saputasi conquistare dai gloriosi reggimenti fin dalle prime azioni nell’attuale guerra e il nazionale riconoscimento di questo valore affermatosi in tante occasioni […]. Il sardo ha per la sua Isola un attaccamento pieno di fervore, un affetto nutrito di nostalgica tenerezza, geloso, esclusivo, direi quasi morboso […]. Bisogna guardarsi dall’offendere questo sentimento». Aggiunge ancora: «Un’efficace opera di propaganda fra le truppe sarde dovrebbe pertanto […] tendere verso questo duplice scopo: a) tenere vivo costantemente ed eccitare, colla parola e coll’esempio […] il sentimento di fierezza e dell’onore profondamente insito nell’anima del sardo […]. Nessun sardo si adatterebbe all’idea che la bella tradizione della sua brigata possa venire offuscata da un episodio di viltà o di debolezza […]; b) diffondere tra i soldati la persuasione che i sacrifici che la Nazione […] ha oggi il diritto di reclamare dai sardi non saranno sterili e improduttivi di risultati benefici per l’Italia e per la Sardegna. L’immagine della bella Isola lontana che attende dolorante che siano rimarginate le sue piaghe e riparate le offese che l’ingiuria e l’ingratitudine degli uomini le hanno recato deve spesso ricorrere nelle parole che l’ufficiale rivolge ai suoi soldati […]. I sardi hanno – come la razza ebraica, come le plebi russe […] – la psicologia dei popoli che si ritengono, a torto o a ragione, vittime di una oppressione secolare, di una clamorosa ingiustizia storica. Arde nella loro anima una sete smisurata di giustizia e cova quell’indistinto senso di rivolta di chi sente il peso di una servitù da cui è incapace di redimersi». Deffenu così conclude la sua relazione: «Il fin qui detto […] autorizza a concludere che le forme di propaganda comunemente adottate riuscirebbero di scarsissima efficacia nei confronti dei soldati sardi, per i quali argomenti di altissimo valore educativo e capaci di accrescere lo spirito di disciplina e di aggressività di altre truppe appaiono astrattezze, generalizzazioni spoglie di potenza persuasiva».
Ma Deffenu non aveva brigato tanto per farsi spedire al fronte per mostrare esclusivamente le sue valenti doti di scrittore e propagandista. L’ufficiale cardiopatico e ‘sovversivo’, in vista della battaglia del Piave del giugno 1918, che avrebbe reso vano l’ultimo tentativo austriaco di sfondare le linee italiane, rinunciava alla licenza a cui avrebbe avuto diritto e chiedeva di poter combattere sul campo. Gli veniva così dato il comando di un plotone, a capo del quale, la mattina del 16 giugno, usciva dalla trincea, in località di Croce di Fossalta. Circondato da superiori forze nemiche, continuò a combattere con i suoi uomini fino all’estremo sacrificio. Aveva ventott’anni. Moriva così, giovanissimo, l’unico grande intellettuale sardo che partendo da idee forti seppe dare alla Sardegna una grande prospettiva di cambiamento, di riscossa economica e sociale. Prospettò una ‘rivoluzione’ sarda, non fine a sé stessa, ma parallela e inserita nel contempo in quella più vasta rivoluzione nazionale che sarebbe scaturita da Vittorio Veneto.
Angelo Abis
(admaioramedia.it)