E’ calato mestamente il sipario sulle Settimane sociali dei cattolici italiani, e la sensazione è che possa succedere la stessa cosa sul mandato cagliaritano del ‘vescovo Arrigo’, come lo hanno chiamato i suoi superiori alla fine della kermesse andata in onda stancamente nei padiglioni della Fiera di Cagliari. Se non succederà in tempi rapidi, occorre prepararsi a un’agonia che potrebbe anche durare mesi.
La Chiesa del Capoluogo sardo – come già scritto su queste pagine – vive un penoso periodo di apnea, legata al fatto che il suo vertice ha compiuto 75 anni a luglio e ha incassato una inattesa (perfino e soprattutto per lui) proroga di due anni. Sono in tanti a scommettere che il provvedimento sia stato preso giusto per dargli tempo e modo di fare da ‘padrone di casa’ all’appuntamento con le Settimane sociali di fine ottobre. Il grande regista è stato però quel Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto, che alcuni osservatori danno come possibile sostituto di Miglio (clamorosa la gaffe di Santoro dal palco davanti a Gentiloni: “Prima di essere presidente delle Settimane sociali, sono vescovo di Cagliari, ehm di Taranto…”). L’apnea è presto spiegata: don Arrigo non è più nel pieno dei suoi poteri, avendo seminato i suoi accoliti più affezionati nei punti chiave della diocesi, e per la Chiesa cagliaritana è tutt’altro che semplice specchiarsi in un Vescovo in partenza con le valige pronte.
Gli unici che gli stanno ancora intorno sono un paio di improvvisati autisti e factotum (Miglio si era già disfatto della segreteria, dato che era convinto di andar via), illusi di poter avere ancora qualche chance dell’ultim’ora. Anche ‘Barabba’ – l’anonimo (si fa per dire) estensore di un blog che attaccò monsignor Mani negli anni del suo episcopato, poi entrato prepotentemente nelle grazie di Miglio – è stato accontentato con una parrocchia di primaria importanza nello scacchiere cagliaritano. Tutto, per Miglio, è dunque compiuto.
Ma torniamo alle Settimane sociali, che poi per la Chiesa italiana si riducono a tre giorni e mezzo. Due i grandi assenti, a questo punto intuibili anche dai più distratti: il clero e il laicato di Cagliari, oltre che la stessa Città e la Sardegna. Quest’ultima vergognosamente relegata nel ruolo di comparsa, di fornitrice di alberghi e bed and breakfast à la carte ai convegnisti accorsi (si fa per dire) da tutt’Italia. A proposito: erano 1.100 sulla carta, ma meno, molti meno quelli visti nel PalaCongressi della Fiera che fu. E gli altri? Un po’ in spiaggia, un po’ in giro per shopping, ma – eccezion fatta per i momenti clou (Gentiloni su tutti) – in Fiera se ne sono visti davvero pochini.
Detto del clero diocesano, neppure invitato alla passerella di vescovi e politici, resta il laicato: i responsabili locali di associazioni e movimenti hanno clamorosamente disertato l’appuntamento (forse non erano stati nemmeno invitati), come pure la grande stampa nazionale. Non un sardo (tranne Pigliaru) ha parlato dal palco. Se si escludono i buffi entusiasmi adolescenziali dei ‘vaticanisti di casa nostra’ con le loro emozionate e incomplete dirette tv, e la patetica grancassa dei media della Cei, nel resto d’Italia poco o nulla è stato scritto o detto. Il silenzio è stato totale. D’altra parte, dov’era la notizia? Al termine di lavori preparatori – per loro stessa ammissione – durati mesi, l’altisonante comitato organizzatore e scientifico ha prodotto quattro propostine, per nulla innovative ma molto tecniche.
Ai più sono apparse come la possibilità di far dare pubblicamente ragione (da parte della Chiesa) a qualche docente di area cattolica che vende libri su quei quattro concetti. O davvero qualcuno pensa che i problemi delle famiglie senza lavoro e senza sostentamento possano essere risolti con i Pir (Piani individuali di risparmio), che in pochissimi si possono permettere? Il tema delle migrazioni? Non pervenuto. Il fine vita? Idem. Il PalaCongressi ha risuonato di vecchie parole chiave, di ricette scontate e banali, di parole d’ordine di cui nessuno più sente la necessità, fuori e dentro la Chiesa. Un esempio? Il ritornello, dall’inizio, è stato: “Vogliamo un lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale”. Chi, oggi in Italia, avrebbe il coraggio di sostenere il contrario? Poi bisogna vedere cosa accade nella realtà: quel tipo di lavoro, in tantissimi casi (che la Chiesa non ha denunciato), non esiste.
Ma fra vescovi sorridenti e laici interessati (poi vedremo a cosa e perché), è andata in scena la fiera dell’ovvio, dei saldi a cottimo dai libri di economia scritti da un manipolo di intellettuali, che – presentandosi come cattolici, o financo come rappresentanti della gerarchia ecclesiale – da anni scansa le bufere accademiche e pian piano (non potrebbe essere diversamente, vista la caratura dei soggetti) fa carriera negli atenei. Sul lavoro c’è poi un clamoroso ‘però’. Durante i quattro giorni del “Festival del banale”, i convegnisti sono stati scarrozzinati per tutta l’Isola nelle cosiddette visite alle “buone pratiche” (in tanti casi autoproclamate) , tra cui hanno brillato quelle stile ‘pani e casu, e binu a rasu’, tra una forma di formaggio e un bicchiere di vino particolarmente graditi dai delegati. Una serie di piccoli appuntamenti senza altra possibilità per ogni azienda che un po’ di buona pubblicità nella cui ricerca nei mesi precedenti sarebbero stati impegnati 213 giovani in 82 diocesi. Viene davvero difficile capire e spiegare come alcune di quelle santificate dalla Cei possano essere definite “buone pratiche”, specie quelle di alcuni enti regionali entrati clamorosamente nella fortunata lista, e che anche le pietre in Sardegna sanno essere luoghi in cui si entra solo con robuste raccomandazioni, vere fucine di accozzo politico.
E’ questa la buona pratica del lavoro che la Chiesa italiana vuole indicare? O magari qualcosa – nell’individuazione in Sardegna di alcune di loro – non ha funzionato? E’ sbagliato pensare che – individuando un’azienda, una ditta, un qualunque posto come “buona pratica” – le si è pericolosamente dato un bollino in grado di coprire le vere condotte lavoristiche che vengono e verranno attuate nella vita di tutti i giorni? Tutte domande senza risposta che, alla fine, fanno tristemente comprendere che la Chiesa, oggi in Sardegna, ha un serio problema di raccordo con il territorio, con la diocesi cagliaritana che anziché essere guida e leader è rimasta completamente afona. Fuori dalla Fiera sono infatti rimaste le grida dei lavoratori che, anche in quei giorni, hanno perso il posto di lavoro, o di quelli che non hanno più nemmeno diritto alla cassa integrazione e che non possono certamente vivere d’aria. Dov’era il dramma vissuto dalle aziende decotte, o la denuncia degli imprenditori rapaci che della nostra Isola hanno fatto man bassa? O il malessere dei pastori sardi pronti per l’ennesima volta a marciare su Cagliari? O dei call center che, anche loro, chiudono? Quelle non sono “buone pratiche”, evidentemente, quindi non sono da mostrare. Meglio, molto meglio spolverare la solita immagine da cartolina.
Niente: nulla di tutto questo ha fatto capolino alla Fiera, nemmeno nel discorso di Pigliaru che ha giustamente (dal suo punto di vista) pubblicizzato e vantato il lavoro della sua Giunta (anche questo una “buona pratica”?), adeguandosi allo stile da réclame della kermesse “omo lava più bianco”. La Pastorale del lavoro e dei problemi sociali (dopo l’improvvida rimozione di don Borrotzu) può continuare a dormire: l’evento è andato, e qualcuno ha pure il coraggio di dipingerlo come un successo. Ai convegnisti delle Settimane che durano solo quattro giorni non è stata raccontata la Sardegna. Ma, quel che è più grave, è che – complice l’attuale guida della diocesi più grande – è stata mostrata una Sardegna che, molto più semplicemente, non esiste.
Zaccheo
(admaioramedia.it)