Esiste un luogo comune abbastanza collaudato: “I tedeschi amano gli italiani ma non li stimano. Gli Italiani stimano i tedeschi, ma non li amano”. Una considerazione ovvia, viste non solo le differenze antropologiche tra un popolo latino ed uno nordico, per non parlare poi delle vicende storiche culminate, nella fase finale del II° conflitto mondiale, dopo l’8 settembre 1943, nella massiccia presenza di truppe tedesche nell’Italia centro-settentrionale, nemiche per il Regno del Sud, alleate per la Repubblica Sociale Italiana, con tutto quello che ne è conseguito, compresa la indecente equazione del tedesco uguale nazista.
Ma tutto ciò mostra una strabiliante eccezione: la Sardegna e i sardi. Per ragioni non sempre chiare, i tedeschi hanno sempre mostrato nei confronti dei sardi un senso di grande ammirazione e rispetto. Viene spontaneo richiamare alla memoria la figura del linguista Leopold Wagner, che, a fronte delle affermazioni dell’antropologo italiano Niceforo (“… C’è dunque nella zona delinquente – la Sardegna, ndr – oltre a un atavismo del senso morale, anche un atavismo nell’evoluzione sociale; quella zona – la Sardegna, ndr – è una grande scoria… scoria ammalata e vecchia, residuo di un mondo scomparso”), affermava che le cause del banditismo e dei delitti del Nuorese non erano da attribuirsi alla costituzione genetica e all’indole della popolazione (“questo popolo non è malvagio come lo descrivono quelli che non lo conoscono”), bensì alla povertà imperante e allo stato precario dell’agricoltura. A ciò occorre aggiungere l’ottimo rapporto che si creò tra sardi e soldati tedeschi di stanza in Sardegna (oltre 30.000) nel periodo 1940-43, e il loro successivo abbandono dell’Isola senza alcun incidente con la popolazione.
Poi, c’è da considerare che i tedeschi non hanno una grande opinione degli immigrati italiani in Germania, mentre stimano i sardi in quanto più pronti ad apprendere la lingua e a integrarsi nel tessuto sociale germanico. In questo contesto si inserisce la figura di uno dei più grandi scrittori e filosofi tedeschi del ‘900: Ernest Jungher (nato a Heidelberg il 29 marzo 1895), deceduto a Wilflingen il 17 febbraio 1998, alla bella età di 103 anni. Ne fa un bel ritratto il giornalista e intellettuale di origine sarda Stenio Solinas nell’introduzione al libro di Junger sull’isola di Carloforte del 1957: ” …Nato sul finire del XIX secolo, Junger ha attraversato la prima metà del Novecento senza farsi mancare niente: si è arruolato giovanissimo nella legione straniera, è stato un eroe della prima guerra mondiale, pluriferito e pluridecorato, ha scritto testi teorici per la cosiddetta ‘rivoluzione conservatrice’ in Germania; ha riflettuto sulla figura del ‘milite-operaio’ nella nuova era della tecnica; ha costeggiato il nazismo; ha partecipato, sempre da ufficiale alla II guerra mondiale; si è ritrovato un vinto di quella Germania libelungica annichilita dal suo stesso fuoco distruttore e di cui, da tedesco anche se non da nazionalsocialista, ha condiviso sino all’ultimo la sorte…”.
Inoltre, lo scrittore perse il figlio 18enne nel 1944 sul fronte italiano, in Toscana, dove era stato inviato con un battaglione speciale in quanto accusato di essere antinazista. Ad un Junger deluso e ferito dalla storia e dalla sua ‘modernita’, la Sardegna apparirà come una terra ancora immune da quella ‘corruzione’ dei costumi che inevitabilmente il progresso comporta. Le innumerevoli volte in cui, a partire dagli anni 50, lo scrittore soggiornerà a lungo nell’Isola, in particolare nei comuni di Villasimius e Carloforte (a Villasimius c’è ancora un’abitazione con targa e campanello con la scritta ‘Junger’ e pare vi risieda una nipote dello scrittore), non faranno che rafforzare nello scrittore la convinzione che la Sardegna fosse l’emblema di “una vita felice“, il presagio di “un lungo tempo di pace“, “al riparo dalle tempeste“. Da qui un suo giudizio ‘alto e definitivo’: “… sono dell’opinione che storia e preistoria di un’isola come questa siano comprensibili anche per altre vie che non siano quelle degli studi. Sui suoi monti, ai piedi delle sue scogliere, nell’immobile tranquillità delle sue valli dove le lucertole si crogiolano al sole, è ancora possibile dormire un sonno leggero fra gli atomi dell’atemporalità, ciò che nella sequenza dei tempi si è configurato come un modello ideale pazientemente tessuto. Ciò si può leggere nel vento e nel l’onda, sui volti di uomini e donne, nel loro linguaggio e nelle loro melodie, nel modo con cui la sera s’increspa il fumo del focolare sopra le loro dimore”.
Ma ancora più profondo e interessante è il suo rapporto con i sardi: “...Accanto a noi passa un bambino, un vecchio, una donna di mezza età, vediamo la sua fronte, gli occhi, la particolarità dell’andatura, e ci coglie un brivido. Sentiamo che ci è passato vicino un essere originario, primordiale, venuto a noi da tempi in cui non esistevano né popoli né paesi nel senso che noi diamo a queste parole. […] La sera, eccomi seduto con i soliti commensali… Parlammo di politica. Il discorso cadde sulla barbara uccisione di Mussolini, io potei aggiungere che… le raccapriccianti fotografie scattate a Milano sarebbero state mostrate a Hitler poco prima della sua fine, e che la loro visione avrebbe rafforzato in lui la decisione di togliersi la vita. Quando manifestai in proposito l’opinione che in simili situazioni il suicidio sia da preferirsi… con mio grande stupore fui contraddetto da generali e vivaci proteste. Combattere, combattere con ogni mezzo, magari imboscarsi, travestirsi, tentare di fuggire sino all’ultimo istante, insomma non disperare mai. Molto più lodevole sarebbe lasciarsi uccidere, e sia pure nella maniera più crudele. Questa è la misura antica, anteriore agli stoici. […] Si è mangiato e bevuto… Poi si è fatto silenzio, e si è levato il canto del ‘Duce Benito’. Prima, i doganieri si erano tolti le giacche delle uniformi”.
Angelo Abis
(admaioramedia.it)
One Comment
Benedetta Figus
Sempre luoghi comuni.