Ci sono eventi così carichi di ricordi che restano indissolubilmente legati al patrimonio emotivo di tutta una famiglia per generazioni. E non conta se quelli che li tengono uniti non siano legami di sangue, ma legami di amicizia e di fratellanza.
Valentino Mazzola era il capitano della squadra del Torino che perì nella tragedia di Superga. Era un simbolo per l’Italia che cercava di rialzarsi dalle macerie della guerra, fino ad essere osannato per le sue doti calcistiche ed umane di capitano. Ma non tutti conoscono una parte della sua vita, che è indissolubilmente legata a quella della mia famiglia. Mio nonno, Salvatore Izza, era capitano della Regia Marina Militare fino agli esordi della guerra nel 1940, comandava l’Arsenale di Venezia, dove viveva con la famiglia venuta da Alghero. Aveva avuto sei figli, tra questi Miro il terzo dei maschi, abilissimo giocatore di pallone della squadra del Comando della Marina. A lui venne affiancato un giovane marinaio appena arrivato da Cassano D’Adda, Valentino Mazzola, che da subito aveva dimostrato di possedere straordinarie doti nel gioco del pallone. Quella piccola squadra del Comando serviva anche da vivaio a quella più importante del Venezia, che in quegli anni militava in serie A, e l’allenatore della Serenissima, Girani, ne prendeva i migliori elementi.
Fu così che le due promesse del calcio vennero reclutate per la prima squadra. Ma mentre Miro poteva dedicarsi al calcio senza problemi perché studente, per il giovane Valentino si ponevano dei limiti in quanto vincolato dall’obbligo del militare che ne avrebbe limitato gli allenamenti. Per ovviare a ciò, Nonno lo fece diventare suo attendente, concedendogli tutta la libertà di cui un simile talento aveva bisogno. Tornava in caserma solo per dormire e trascorreva il resto della giornata nell’alloggio della mia famiglia, dove, seguito da Miro che nel frattempo era diventato suo amico, iniziò a studiare per prendere la licenza elementare. Valentino fece poi quella magnifica carriera che tutti conosciamo, diventando anche un simbolo per la ricostruzione del nostro Paese, fino alla tragedia di Superga.
Perfino la cinematografia ha cercato di farne un ritratto, a volte anche controverso, ma c’è quella parte della sua vita, nascosta ai più, che rimane invece indissolubilmente legata alla mia famiglia. Quello speciale rapporto amicale con Miro, che poi non si spense mai. Tornò ad Alghero nel 1948, di ritorno da una trasferta con la squadra del Torino campione d’Italia, Miro lo attendeva sotto la scaletta dell’aereo, assieme ai tantissimi fotografi che coi flash suggellarono quell’amicizia ritrovata alla fine della guerra. Dopo tanti anni di lui rimane ancora la bella fotografia con i piccoli Sandro e Ferruccio seduti sulle sue ginocchia che campeggia nel soggiorno di zia. L’ultima che mandò a Miro pochi mesi prima di quel tragico 4 maggio 1949.
Biancamaria Balata
(sardegna.admaioramedia.it)