Certamente il prossimo 25 aprile, festa della liberazione, le autorità di Santu Lussurgiu deporranno, come è d’uso, una corona ai piedi del monumento ai caduti del paese. Qualcuno potrebbe scandalizzarsi perché fra i nomi dei caduti spicca quello di Francesco Maria Barracu, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dell’ultimo governo di Mussolini nella Repubblica Sociale Italiana.Se ne faccia una ragione. Non è dei sardi classificare i propri caduti in base a valutazioni di tipo ideologico o politico: sono caduti sardi, punto e basta. Tant’è in tutta l’Isola abbondano strade, piazze, scuole e persino monumenti dedicati a personaggi, non solo platealmente fascisti, ma che pure hanno militato nella Rsi.
Barracu nacque a Santu Lussurgiu il 1° novembre 1895. Il padre, Antonio Maria, non navigava certo nell’oro. Era una guardia campestre che per sbarcare il lunario gestiva con la moglie una bettola. Il paese non offriva, allora, molte prospettive ad un giovane irrequieto le cui possibilità di ascesa sociale erano ristrette o all’entrata in seminario oppure arruolarsi nell’esercito o nelle forze dell’ordine. Francesco Maria, poco propenso allo studio, fu dal padre avviato al lavoro come apprendista calzolaio presso Leandro Scanu. Un giorno arrivò in ritardo al lavoro. Ripreso malamente dal calzolaio, scrisse su un pezzo di carta un sonetto in lingua sarda, che tradotto diceva: “Le teste cattive sono intelligenti/ sei anziano e non lo sapevi ancora/ se nella mia testa manca la ruota/…me ne vado in questa buonora/ in paese non mi vedranno di frequente/ perché abbandono bevande e vino/ e proseguo per il mio destino/…
Appena diciottenne, si arruola come soldato semplice nel Regio Corpo di Truppe Coloniali della Cirenaica. Il 22 settembre 1914 prende servizio nella città di Bengasi. da quel momento, sino al gennaio 1943, data in cui conseguì il grado di maggiore, avanzò di grado unicamente per meriti di guerra che, tradotto dal burocratese, significavano non solo tante medaglie meritate, compresa quella d’oro, ma anche centinaia di combattimenti, compresi quelli corpo a corpo, sempre in testa ai propri uomini, riportando decine di ferite, fra cui la perdita di un occhio. L’immagine apparente è quella di un soldato coraggioso certamente, ma anche rude, poco sentimentale e forse un po’ ignorantello e per giunta fascista, almeno nel senso deteriore che oggi si usa dare a questo termine. Eppure questo soldato rude, per non dire rozzo, nel 1925 dà alle stampe, a Bengasi, un poema epico in due volumi intitolato: “Sardegna, Santa madre di eroi”. L’opera, al di là del valore letterario, pone in risalto la lotta del popolo sardo contro qualunque dominazione straniera, ricorda le atrocità commesse dagli invasori. Insomma una lettura resistenziale, ante litteram, della storia della Sardegna. Resistenza non solo militare e civile, ma anche religiosa rappresentata dai santi Proto, Gavino e Gianuario che furono decapitati dai romani.
Nel 1938 venne messo in aspettativa per le ferite e le mutilazioni riportate sopratutto in Africa Orientale. Divenne funzionario presso il Ministero dell’Africa Italiana, dove incominciò ad avere dimestichezza con la politica, qualificandosi anche come giornalista esperto in questioni coloniali. Scoppiata la seconda guerra mondiale, chiese, come volontario, di partecipare al conflitto. Fu inviato a Bengasi con l’incarico di federale della città. Come al solito non si risparmiò e venne ancora decorato con una medaglia d’argento e una di bronzo. Trasferito nel gennaio 1943 nell’isola di Corfù con un incarico politico che durò pochi mesi, approdò come federale nella città di Catanzaro. Dopo l’8 settembre non esitò un attimo a schierarsi con Mussolini. Fu lui. tra l’altro che convinse il molto riluttante generale Graziani ad accettare la carica di ministro della guerra della nascente Rsi. con un ragionamento abbastanza convincente: se non avesse accettato l’incarico avrebbe lasciato ai tedeschi un potere assoluto che avrebbe permesso di scaricare sull’Italia la loro sete di vendetta per il tradimento dell’8 settembre.
Divenuto sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei ministri, a partire da ottobre 1943, organizzò nelle rive del Garda il suo dicastero, composto prevalentemente da elementi sardi già da lui conosciuti in Africa. C’era padre Luciano Usai, tenente cappellano militare dei guastatori, che a Roma l’aveva aiutato a costituire un’unità combattente costituita esclusivamente da sardi: il battaglione volontari di Sardegna “Angioy”, comandato prima dal colonnello Bartolomeo Fronteddu e poi dal capitano Achille Manso. I sardi combatterono sino alla fine del conflitto nella Venezia Giulia contro gli slavi di Tito. Il chimico cagliaritano, seniore della milizia, Bruno Riva ricopriva l’incarico di responsabile della segreteria particolare che si occupava dei servizi logistici Dirigeva invece l’ufficio stampa ed era anche responsabile della propaganda per le province invase, Edgardo Sulis di Villanovatulo, già redattore della rivista “Gerarchia”. Inoltre, Barracu è in stretto contatto con lo scrittore e giornalista Stanis Ruinas, col musicista Ennio Porrino che comporrà l’inno della Rsi, col generale Gioacchino Solinas, col commissario della Banca del lavoro Vincenzo Lai. Barracu, però, non godeva di buona fama nelle ‘alte sfere’ della Repubblica di Salò: Farinacci lo definiva «un sergente maggiore senza sale in zucca»; il diplomatico Bolla, «una bestia energica e coraggiosa, un appuntato di scuderia». Per Attilio Tamaro, lo storico più accreditato di parte fascista, Barracu è «valoroso, appassionato, fazioso, non adeguato per intelligenza al ruolo che avrebbe assunto». Infine Preziosi, qualche giorno prima del definitivo crollo della Repubblica, non trovò di meglio che recarsi da Mussolini per accusare Barracu di essere massone.
Neppure i Tedeschi lo stimavano: il colonnello delle SS, Eugenio Dolmann, nel volume “Roma fascista”, parla degli «assassini della banda sarda di Barracu». Tanto astio nei suoi confronti ha una duplice spiegazione: Barracu era un militare di carriera dell’ex esercito regio e, perciò malvisto, come del resto anche il generale Solinas, dall’ala più intransigente del fascismo repubblicano. Per altro verso, contrariamente alle apparenze, Barracu non era un fascista oltranzista. Anzi, militò nell’ampio schieramento di coloro che si battevano contro il settarismo, per la libertà di stampa e per il pluralismo politico. Renzo De Felice, nel volume “Mussolini l’alleato”, riporta il giudizio che di Barracu ‘politico’ dà l’ex socialista Dinale: «Era per un verso convinto della necessità di un rimpasto di governo e di una apertura a tutti del Partito Fascista Repubblicano, che, per parte sua, avrebbe dovuto essere profondamente rinnovato attraverso una radicale revisione dei suoi quadri, e in particolare dei capi delle province […]; la concessione di una completa libertà di stampa e la convocazione in tempi brevissimi di una costituente; per un altro verso, pur caldeggiando in teoria una politica di avvicinamento e di intesa con i partigiani, in pratica concepiva però questa politica in una logica solo militare».
Pur nella drammatica situazione del momento, Barracu aveva sempre presente la sua Sardegna. Alternandosi col cappellano militare don Antonio Ledda, di Sindia, alla radio di Salò, teneva infuocati discorsi ai sardi. Come pure faceva lanciare nell’Isola volantini con qualche successo, tant’è che l’Ispettorato alla pubblica sicurezza, nel dicembre del 1943, comunica a Badoglio che “proprio in questi giorni la divisione Nembo ha dato chiari segni di agitazione… questo movimento è in relazione con il lancio di manifestini, a firma della nota medaglia d’oro maggiore Barracu, incitanti i sardi alla rivolta”. In un suo discorso alla radio fece capire di aver ottenuto da Mussolini la concessione dell’autonomia per la Sardegna: “Il Duce… mi ha detto che… la Sardegna… avrà, in base al nuovo ordinamento, l’autonomia necessaria che la sua configurazione, la sua posizione geografica e il suo passato, le hanno dato il diritto di sognare e di avere…”.
Nei giorni successivi al 25 aprile, quando tutto era ormai crollato, Barracu stette alle costole di Mussolini: era presente nel famoso incontro all’Arcivescovado, era con lui nella colonna diretta in Valtellina. Erano insieme nell’autoblindo bloccato dai partigiani a Dongo. Era tra quelli che inutilmente sconsigliarono il Duce a salire sul camion tedesco. Allorché l’autoblindo si mise in movimento per sfuggire al posto di blocco venne fatto oggetto di un fitto fuoco di sbarramento dal costone della montagna. Il mezzo rimase bloccato e i due occupanti rimasero uccisi; gli altri risposero al fuoco e si buttarono fuori, ma furono circondati. Pavolini venne ferito ad un occhio, Barracu a un braccio: dovettero arrendersi. Vennero condotti nel palazzo del Municipio di Dongo. L’indomani il cosiddetto colonnello ‘Valerio’, dopo aver ucciso Mussolini e la Petacci a Giuliano di Mezzagra, piombò a Dongo e si fece consegnare tutti i gerarchi prigionieri. Li fece allineare lungo un parapetto. Erano tutti tranquilli, solo Barracu protestò: «Sono una medaglia d’oro, ho il diritto di essere fucilato al petto». Non lo accontentarono. Morirono tutti gridando chi «Viva l’Italia», chi «Viva il Duce». Solo Bombacci urlò «Viva il socialismo». Barracu ritroverà Mussolini al Piazzale Loreto. Appeso anche lui a testa in giù, alla sinistra del Duce. Così “L’Unione Sarda” del 5 maggio 1945 commentò l’episodio nell’articolo “Le ultime ore di Mussolini”: «I fascisti giustiziati sono 177. Si conferma che fra essi è Barracu, il tracotante signore che – scrive “L’Avanti” – riceveva amici e conoscenti giocherellando con la rivoltella e ostentando un grosso mitra sul tavolo, al posto della penna poco consueta».
Angelo Abis
(admaioramedia.it)