Più che di revisionismo, che ha comunque una sua dignità e fa parte a pieno titolo del divenire della storia, la strampalata decisione della Giunta regionale di incollare alla ricorrenza di ‘Sa Die’ il sottotitolo “Sardinia, terra de migrantes”, per strizzare l’occhio alla solita retorica sull’integrazione, potrebbe essere accusata di illusionismo. La storia non fa salti, insegna un vecchio detto, ed accostare una vicenda di ‘liberazione nazionale’, come quella sarda di allora, all’attualità con il suo carico di problemi epocali legati all’immigrazione è un’arrampicata sugli specchi destinata fin dall’inizio al meritato insuccesso. Non meno ambiguo il riferimento all’uguaglianza dei migranti (sardi) di ieri con quelli di oggi. I primi, stremati dalla povertà ma intellettualmente molto lucidi, lasciavano la loro terra per trovare lavoro ed integrarsi, scegliendo destinazioni come Germania, Stati Uniti, Belgio, Argentina e Canada perché erano grandi potenze economiche, o perché (nel caso del Belgio) offrivano un lavoro conosciuto come quello nelle miniere, o perché si trattava di Nazioni giovani in cui c’era molto da costruire. L’emigrazione sarda ‘storica’ ha raggiunto i suoi scopi e forse questa è l’unica verità sfuggita per caso all’assessore della Cultura, Claudia Firino: i Sardi si sono affermati nel lavoro e nelle professioni ovunque nel mondo, conservando intatta la memoria della loro origine e l’affetto per la terra ‘madre’, ma anche, bisogna riconoscerlo, tenendo i piedi ben piantati nelle diverse patrie di adozione.
Niente del genere si può dire, purtroppo, fatte le dovute (e limitate) eccezioni, per l’immigrazione che conosciamo oggi, soprattutto in Italia, ma in generale in Europa, compresi i Paesi tradizionalmente più permissivi che, arrivati alla seconda o terza generazione, si sono resi conto bruscamente che nelle loro mura era entrata una mandria scatenata di ‘cavalli di Troia’. L’Italia, come sappiamo, non è o non è più una grande potenza, anzi per molti indicatori è agli ultimi posti in Europa. La Sardegna, poi, è agli ultimi posti in Italia e praticamente con questo dato il cerchio si chiude. Terminata la fase dell’accoglienza, sempre più problematica a causa della sua insostenibile dimensione numerica e ad un distorto passa-parola (amplificato da media interessati e irresponsabili) sul massimo dei diritti a fronte dello zero dei doveri, non resta che l’assistenza, ma anche questa costa molto, più di quanto possiamo permetterci, ed ha finito per diventare un affare per pochi pescecani. Poi c’è il problema di fondo: solo una minima parte (i richiedenti asilo, i rifugiati politici e pochi altri) dei migranti che arrivano da noi si vogliono integrare e, men che meno, diventare cittadini italiani. E anche questo aspetto, raffrontato con l’emigrazione sarda, rappresenta una differenza tanto profonda quanto insuperabile.
E’ vero che l’integrazione è una cosa complicata ma, se si potesse fare una classifica immaginaria di successi, il primo posto spetterebbe all’Impero romano, che integrò popoli diversi e lontani (spinto dalla realpolitik, se vogliamo) in modo molto efficace con tre regole semplici: sottomettersi all’Impero, combattere per l’Impero, pagare le tasse all’Impero. Se oggi si mettesse in piedi qualcosa di simile, il problema sarebbe risolto.
SardoSono
(admaioramedia.it)
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