Come noto, la Giunta Pigliaru ha scelto di dedicare l’edizione annuale de Sa Die de Sa Sardigna ai migranti. Per non dimenticare di cosa si sta parlando, giova ricordare che il 28 aprile del 1794 i sardi cacciarono da Cagliari il viceré Balbiano assieme ai funzionari sabaudi. La circostanza diede luogo alla rivoluzione anti-feudale, in seguito guidata da Giovanni Maria Angioy e purtroppo fallita. Gli eventi spinsero il nostro generale a fuggire a Parigi (in buoni rapporti col governo francese) dove morì nel 1808, mentre i Savoia diedero vita ad una brutale repressione del dissenso.
Ricordiamoci, in questa rivoluzione, di personaggi come il notaio cagliaritano Francesco Cilocco, anti-piemontese e capitano di un’armata di migliaia di uomini che, assieme al patriota Gioacchino Mundula, il 27 dicembre 1795 assediò Sassari per arrestare tutti i feudatari. I ricercati riuscirono a fuggire ed in seguito si vendicheranno con una feroce rappresaglia guidata dai fratelli del Re Carlo Emanuele IV° di Savoia. Cilocco verrà torturato con la corda (la pratica del sollevamento poteva spezzare le ossa), tramite tenaglie infuocate (per strappare capezzoli, unghie e carne) e con la fustigazione (a doppia suola intessuta di piombo per strappare la pelle). Infine verrà impiccato, decapitato (da morto), il suo cadavere verrà bruciato e le sue le ceneri sparse al vento. Correva il 1802.
L’assessore regionale alla cultura, Claudia Firino, con la sua fascia tricolore (pensate un po’), dedicherà queste immani tragedie ai migranti. Come dedicare San Valentino alla battaglia di Lepanto o il Natale allo sbarco in Normandia. Quando un popolo scorda la propria storia, con essa svanisce anche il senso del ridicolo. Le vicende di una nazione e di un territorio vengono così declassate al ruolo di una lotteria da sagra paesana, dove ogni anno il fortunato di turno si aggiudica una lavatrice. E proprio perché al peggio non c’è mai fine, al danno si è scelto di aggiungere la beffa: probabilmente in Regione avranno scordato che migliaia di giovani sardi continuano ad emigrare all’estero, in fuga da una Sardegna pregna di ricchezze ma povera di talenti politici in grado di valorizzarne l’economia.
Festeggiare chi arriva scordandosi di chi parte è il sintomo dell’analfabetismo culturale in cui siamo precipitati, tanto più insidioso poiché nascosto dietro il rassicurante volto della retorica buonista. Quella che sfrutta la tragedia di chi fugge da un conflitto in Africa e Medio Oriente per ricavarne una manifestazione tesa a deviare il senso e la portata storica di un’epoca in cui i sardi hanno cercato di far valere le proprie ragioni per l’indipendenza, contrastando l’autorità costituita. L’impressione è che nel nuovo millennio il ricordo de “Sa Die” si sia trasformato in un’occasione per parlare di tutto, tranne del suo significato. Ricordiamoci che se uomini come Thomas Jefferson o George Washington non avessero mai messo in discussione le leggi inglesi oggi non esisterebbero gli Stati Uniti d’America. Le fasce tricolori che il prossimo 28 aprile si ergeranno su discorsi accompagnati da sbadigli ed applausi di circostanza rappresenteranno uno schiaffo alla nostra cultura ed uno sfregio alla memoria di quanti tentarono di migliorare col sangue, e non solo a parole, le sorti della nostra isola.
Adriano Bomboi – da “Sa Natzione“
(admaioramedia.it)
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albix67
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