20 giugno – 19 ottobre 1987: la voce strozzata di mia madre, al telefono, che diceva qualcosa di assurdo: “Hanno preso Cristina”. E io che non capivo, mi rifiutavo di capire.
Stamattina, trent’anni esatti dal sequestro di nostra sorella Cristina, tenuta dai banditi per quattro mesi tra le forre dell’Ogliastra, liberata dall’eroica Squadra Catturandi della Polizia di Stato. Sequestro seguito da attentati e da altre disgrazie e paure e malattie per la mia famiglia, e ovviamente dai segni di quell’esperienza per Cristina. Dei colpevoli, solo il telefonista fu catturato e ha scontato la pena. Per il resto, fascicolo di indagine riaperto solo nel 1998, ricerche tardive, esame del Dna inattendibile per pronta distruzione della maggior parte dei reperti da parte di un giudice, cattiva conservazione dei reperti analizzati. L’ideatore e basista-colletto-bianco e i latitanti – sua manovalanza criminale – individuati, anche grazie alla perspicacia e alla tenacia di nostro padre: ma nulla di fatto a loro carico, per mancanza di prove, tanti anni dopo.
Resta la felicità che lei sia tornata, e che tante persone buone ci siano state vicine. Molti sequestrati non sono tornati mai, altri sono ritornati in condizioni terribili. E in Sardegna, neanche una strada – a quel che mi risulta – intitolata alle “Vittime dei sequestri di persona” (i sequestrati, le loro famiglie, la comunità). Non una lapide con i nomi delle persone sequestrate e mai ritornate, morte per gli stenti o uccise durante la prigionia. Dovremmo invece ricordare una per una tutte quelle persone, vittime innocenti di una pratica terribile che, se scandalizzava le coscienze vigili, veniva spesso presa come un’usanza locale inestirpabile e non proprio deprecabile da menti confuse e confusamente ideologizzate; e con una colpevole moderata attenzione da parte della stampa nazionale, che trattava i sequestri quasi come fenomeni endemico-folclorici, fino a tutti gli anni ’80.
Il sequestro è stato anche un freno potentissimo allo sviluppo imprenditoriale del centro Sardegna: l’aveva detto e scritto mio padre, che per il suo innovativo operare per il progresso di quella collettività, ha pagato prezzi altissimi. Il sequestro, per chi aspetta il proprio caro, mette alla prova cuore, mente e corpo: è una morte-in-vita; e anche la felicità che si prova al suo rientro, così estrema e persistente – circa un anno di umore alle stelle senza un solo momento di malumore – è logorante per i nervi, e ti lascia stremato. Dovremmo ricordare ad alta voce quelle stagioni efferate, quel mezzo secolo crudele che ha sparso lacrime, sangue e fango per la nostra terra bellissima. Ricordiamo, raccontiamo, intitoliamo strade, incidiamo lapidi, e pronunciamo i nomi delle vittime dimenticate.
Alessandra Berardi
(admaioramedia.it)