Negli ultimi mesi le agenzie stampa danno quotidianamente notizia di sbarchi di migranti algerini nel sud della Sardegna, tra le spiagge di Teulada, Porto Pino, Sant’Antioco o Sant’Anna Arresi. Si tratta della rotta Annaba-Sulcis, 200 chilometri o poco più che gli algerini battono da oltre 10 anni.
Ad ottobre 2017, secondo i dati del ministero dell’Interno, gli algerini sbarcati in Italia sono stati 1.930 di cui 1.833 uomini, 50 donne, 5 minori accompagnati e 42 minori soli. Gli arrivi nel 2017 hanno toccato un picco che supera quello del biennio 2007-2008, quando arrivarono in media 1.500 algerini ogni anno. In Algeria, il fenomeno è noto come harga, letteralmente ‘bruciatura’, ma il termine oggi designa l’emigrazione illegale, diffuso soprattutto tra i Paesi maghrebini. “Harga condensa in sé più significati” spiega Arianna Obinu, ricercatrice esperta di immigrazione algerina. “È una partenza, una partenza per vie illegali, una partenza che si vuole definitiva. Netta recisione di un prima e di un dopo, rappresenta l’atto estremo di chi non ce la fa più a continuare a vivere nelle condizioni in cui si trova”.
Mercato del (non) lavoro e islamizzazione progressiva
Le condizioni da cui si fugge sono quelle di un Paese che a fronte di un trend positivo di crescita presenta le criticità di una transizione sociale complessa e lontana dalla stabilizzazione. A nulla conta, infatti, la positività del tasso di crescita reale del Pil, pari al 3,3%, se, nei fatti, l’economia algerina gravita attorno all’industria degli idrocarburi. Il settore oggi non riesce ad assorbire una parte consistente del mercato occupazionale giovanile e per questo nutrite schiere di ventenni si trovano disoccupati e privi di prospettive. Per molti giovani a queste difficoltà si somma quella di vivere in una società in progressiva islamizzazione a partire dalla fine della guerra civile nel 2002, quando gli islamisti riuscirono a legittimarsi a livello popolare aiutando materialmente la popolazione. “Le moschee sostituivano il welfare” spiega la Obinu, “ma oggi le nuove generazioni, sebbene la religione non sia in discussione, sono stufe di una gestione retrograda dell’Islam”. Il desiderio di emulazione degli europei, a partire dal modo di vestirsi fino al bisogno di vivere in un Paese democratico e laico struttura l’esodo degli harraga – i bruciatori di confini – che dagli anni Duemila continuano a lasciare l’Algeria alla volta dell’Europa, sprovvisti di documenti, visti o passaporti, a bordo di piccole barche di legno o in vetroresina, muniti di salvagente e Gps e sfidando il mare e le leggi restrittive che in Algeria prevedono la detenzione anche per chi sia incriminato del reato di emigrazione clandestina.
Fuga di ragazzi senza studi né futuro
Il fenomeno si è evoluto negli anni. “Fino al 2009 questa nuova rotta migratoria aveva sedotto persone diplomate, ma anche nullafacenti, giovani e anziani. Già dal 2009 le novità legislative in Italia e in Algeria innescano però un cambiamento: i minori hanno iniziato a partire sempre più numerosi per ovvie ragioni di opportunità, in quanto non espellibili. Dopo la Primavera araba ad Algeri, un nuovo cambiamento: l’harga diventa un fenomeno generalizzato tra i ragazzi senza studi né futuro, che vivacchiavano di espedienti e che non avevano nulla da perdere. Prova di questo sono i numerosi atti di vandalismo verificatisi nella provincia di Cagliari, con il moltiplicarsi di denunce per furti e spaccio”. Oggi l’harrag tipo è un giovane uomo tra i 20 e i 35 anni, che sceglie di sfidare i rischi di una rotta non semplice per inseguire le promesse veicolate dai media e dai social network. Strumenti che contribuiscono a innescare la fuga, mentale ancor prima che effettiva, da una società alla quale si sentono estranei. Per questi ventenni, il rifiuto della vita in Algeria è tale che spesso l’esigenza di abbandonarla trascende da uno specifico progetto migratorio. “Sulla meta da raggiungere” aggiunge la Obinu “forse vi è stato un primo momento in cui la Francia era vista come punto d’arrivo. Ma di fatto, davvero l’unico scopo era arrivare in Europa, vedere con i propri occhi e con l’ottimismo dello sprovveduto, guardarsi intorno e cercare una propria strada”. Sistematizzare i fattori di spinta dietro la mobilità algerina resta tuttavia una sfida ardua. Nei fatti, i giovani migranti algerini sono dei rischiatutto pronti ad adattarsi a ogni circostanza pur di rispondere a quella sensazione di frustrazione descritta dai giovani algerini come hogra. Termine intraducibile in italiano, che i giovani algerini usano per descrivere il sentimento di impotenza e disadattamento che vivono in un contesto sociale percepito come distante e privo di prospettive.
Paolo Howard – da “Affari Internazionali” del 5 gennaio 2018
(admaioramedia.it)