Sono trascorsi settant’anni dal Trattato di Pace di Parigi del 1947, che fece sfumare definitivamente le ultime speranze degli Istriani e dei Dalmati di poter continuare a vivere da italiani nelle loro case, al di là dell’acqua. Per troppi decenni questa storia è stata inghiottita nel silenzio, annullata, cancellata, assieme alle vittime inghiottite, cancellate, annientate in quelle foibe della Venezia Giulia e della Dalmazia diventate il simbolo di un eccidio dove, tra il 1943 e il 1947, furono gettati dalla furia dei partigiani comunisti jugoslavi di Tito, vivi e morti, migliaia di italiani e non solo.
Una colpevole dimenticanza ha nascosto poi le sorti di centinaia di migliaia di persone costrette all’esodo dalle proprie terre della Venezia Giulia e della Dalmazia e a vivere, in condizioni quasi disumane, nei campi profughi sparsi per l’Italia additati come fascisti. Solo nel 2004 arriva una legge, una norma che istituisce il 10 febbraio “Giorno del ricordo” per le vittime delle Foibe e dell’esodo.
Da questo momento diventa un dovere ricordare qualcosa che per molto tempo si è preferito dimenticare. Sembra quasi un controsenso di cui è difficile stabilire i motivi e le responsabilità. Durante le celebrazioni del 2007, l’allora Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano fu lapidario: “Non dobbiamo tacere, assumendoci la responsabilità di aver negato o teso ad ignorare la verità per pregiudiziali ideologiche e cecità politica. E’ stata una tragedia rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”. Un chiaro invito a rimuovere quei filtri attraverso i quali abbiamo spesso confuso la storia con la propaganda e un richiamo al dovere di onorare le vittime di una tragedia che ha segnato, anche nel silenzio, la nostra storia. In un Paese civilmente maturo il monito del Presidente della Repubblica avrebbe dovuto chiudere e insieme aprire una nuova stagione etico- politica e vedere la nascita di nuova coscienza nazionale comune.
Eppure, a dieci anni di distanza, nel silenzio generalizzato che ancora continua ad avvolgere le vicende che sconvolsero il confine orientale italiano negli anni ’40 e ’50 del secolo scorso, emerge il chiacchiericcio incessante e fastidioso delle solite polemiche. E quello che deve essere un momento di riflessione diventa, attraverso inutili strumentalizzazioni, il pretesto per lo scontro politico. Claudio Magris in merito a queste vicende ci ricorda come ogni parte politica tenda non solo a nascondere i crimini compiuti in suo nome o comunque collegati con la sua ideologia, ma anche a rimuoverli, a ignorarli veramente, in un’orrida buona fede che è il risultato di un assiduo auto-ottundimento morale. È accaduto con le foibe e con tante altre tragedie e delittuose violenze alle frontiere orientali d’Italia; è accaduto con i crimini commessi dagli italiani contro gli slavi, anch’essi rimossi e cancellati, e l’elenco potrebbe continuare ed estendersi ad altri Stati, nazioni, forze politiche dei più vari Paesi di ieri e di oggi.
Questa riflessione ci porta alla conclusione che sulle foibe, non sono stati certo solo i “comunisti” a voler tacere sull’operato del compagno Tito, che nel frattempo aveva relegato i cantierini monfalconesi andati in Jugoslavia a costruire il socialismo nell’Isola Nuda, nei campi di rieducazione di Goli Otok. Dal dopoguerra si sono succeduti diversi governi moderati che hanno preferito comunque non parlare. Eppure molti di coloro che sedevano nelle fila della Democrazia Cristiana in Parlamento sapevano cosa era successo ai membri del Cln Triestino durante i 40 giorni di terrore che sconvolsero Trieste all’indomani dell’entrata in città dei liberatori di Tito.
In fondo i vincitori si arrogano il diritto di scrivere la storia e per il sangue dei vinti non c’è spazio. Anche la destra ha la colpa di aver ricordato troppo spesso in modo sbagliato e regressivo, riacutizzando gli odii nazionalisti antislavi che in parte avevano originato quelle tristi pagine di storia concluse in fondo a una foiba. Sono tante le presunte ragioni questo silenzio colpevole e dell’oblio oltraggioso della storia rimossa degli italiani di Istria e Dalmazia. Quello che è certo è che nessuna ragione può giustificarlo, così come nessuna violenza compiuta su innocenti giustifica la ritorsione di violenze su altri innocenti.
Sembrerebbero dei concetti chiari da comprendere. Eppure ogni anno assisto all’orribile conta dei morti. La gara tra chi elenca gli italiani uccisi dai comunisti e quelli che, al contrario, enumerano gli slavi, comunisti e non, schiacciati dal fascismo italiano. Io spero che il Giorno del Ricordo serva, senza reticenze e senza strumentalizzazioni, a tenere viva la memoria delle vittime e la condanna dei carnefici, di qualsiasi schieramento e nazionalità, senza cadere nella tentazione di servircene, a distanza di 70 anni, per interessi di parte. Lo dobbiamo a coloro che nelle voragini carsiche hanno perso i propri cari, alla sofferenza di coloro che hanno perso una patria, un lavoro, una casa. Italiani che non verranno mai indennizzati in modo totale.
Margherita Sulas – Ricercatrice di Storia Contemporanea
(admaioramedia.it)