Garantire pari opportunità nel mercato del lavoro non significa solo combattere ogni forma di discriminazione basata sul genere, ma anche contribuire a creare una coscienza comune che diventi ricchezza per la nostra regione e la nostra economia.
In un contesto come quello sardo – caratterizzato da una quota elevata di famiglie a rischio povertà ed esclusione sociale e da un tasso di disoccupazione costantemente su livelli superiori alla media nazionale – il sostegno alla componente femminile diventa strategico. Non è un mistero come una crescita economica asfittica comporti pesanti ripercussioni sulle categorie più deboli del mercato del lavoro, compresa quella delle donne. Categorie già sfiancate dalla recente crisi, che ha sensibilmente peggiorato le condizioni di parità di genere, con il conseguente aumento delle discriminazioni in ambito lavorativo. Di più: da Cagliari a Sassari passando per Nuoro e Oristano e toccando tutti i piccoli e grandi Comuni sardi, alle minori opportunità lavorative si è associato, negli ultimi anni, l’esodo di giovani – laureati/e e non, uomini e donne – diretti soprattutto nelle regioni del Centro-Nord e all’estero, campanello d’allarme di una Sardegna malata. Lo spopolamento di certe fette di territorio è il risultato del dramma che stiamo vivendo. Non si può più immaginare, nel 2019, una società caratterizzata da poca partecipazione delle donne nel mondo occupazionale e da differenze di retribuzione a sfavore della componente femminile. Ma sebbene l’indipendenza economica sia considerata una condizione necessaria, affinché ognuno possa gestire in autonomia la propria vita, le donne, sul fronte delle disponibilità economiche e finanziarie, si trovano ancora in situazioni di maggiore precarietà rispetto agli uomini.
Non va meglio nelle altre regioni d’Italia. L’Italia in tema di pari opportunità è certamente migliorata, ma la sua posizione è inferiore alla media europea, si colloca appena al 14esimo posto fra i 28 paesi membri. Le donne italiane secondo lo European Institute for Gender Equality che appena qualche mese fa ha presentato il terzo rapporto sull’indice di uguaglianza di genere 2017, sono ancora molto discriminate in casa, nella parità salariale, nell’occupazione. Ma non è tutto. Il rapporto lancia anche un allarme con la prima stima sul costo sociale che il nostro paese si trova ad affrontare come conseguenza della violenza maschile sulle donne: 26 (ventisei!) miliardi di euro l’anno, una manovra finanziaria. E’ la proiezione economica della violenza sulla produzione economica, sul maggiore utilizzo di servizi e sui costi personali.
Nel 2004 ho firmato la prima proposta di legge a livello nazionale in materia di stalking con l’obiettivo di punire chi mette in atto comportamenti persecutori nei confronti di una persona, che diventò legge qualche anno dopo. Sono passati 15 anni, resta una piaga sociale difficile da debellare, ma da allora la consapevolezza sulla gravità di questo problema è andata sempre più aumentando. Ancora oggi sono fermamente convinto che sia stata una legge utile per arginare un fenomeno che negli anni ha provocato centinaia di vittime, quasi tutte donne. E’ stato anche grazie a questa legge che le donne vittime di stalking hanno potuto riconquistare la libertà che qualcuno aveva loro rubato. Abbiamo il dovere di intervenire anche sul fronte tecnologico. La tecnologia nasconde un divario, quello digitale, ovvero la differenza tra chi ha accesso a internet e chi non ce l’ha, con conseguente esclusione dai vantaggi della società digitale. Un problema che in Sardegna, a livello di accesso alla Rete, è stato affrontato con gli investimenti su fibra ottica e relativa banda larga. Pochi si soffermano però sul fatto che strettamente legato al concetto di divario digitale è il divario di genere. Eppure tra le categorie più minacciate dall’esclusione digitale figurano ancora una volta le donne non occupate o in particolari condizioni di criticità.
Merita poi un discorso a parte l’incidenza pressoché nulla della componente femminile nella vita pubblica. Storicamente in tutte le assemblee di rappresentanza la quantità di donne, e la qualità dei loro incarichi, è sempre stata inferiore rispetto agli uomini. Ancora oggi la forbice è larga. Siamo a un passo dalle Regionali. Guardando alla legislatura che si sta chiudendo, su 60 consiglieri regionali solo 4 sono donne. Hanno fatto la differenza, nella macchina pubblica, i comuni sardi: alle ultime amministrative per la prima volta si è votato col sistema della doppia preferenza e nonostante la predominanza maschile, si sono distinti alcuni Comuni a traino femminile. Oggi sono guidati da donne giovani, delle volte mogli e madri, spesso impegnate nel sociale e attente ai bisogni delle proprie comunità. Davanti a un quadro a tinte così fosche, è estremamente positivo – se alle promesse seguiranno i fatti – il recentissimo consenso espresso dai candidati alla Presidenza della Regione Sardegna volto a promuovere la partecipazione femminile in tutti gli ambiti pubblici e privati.
C’è un’altra novità che interesserà tutti i sardi il 24 febbraio: per la prima volta si voterà con la doppia preferenza di genere (l’elettore potrà indicare a fianco del simbolo del partito due potenziali consiglieri a patto che siano di sesso diverso), un risultato ottenuto grazie alla grande mobilitazione di diversi movimenti – ricordo in particolare per averlo seguito da vicino l’impegno dell’associazione “Meglio in due” – che con passione e caparbietà hanno portato avanti questa importantissima battaglia. L’auspicio è che questa possibilità non venga sprecata, perché per far sì che la nostra Isola sia economicamente virtuosa e per garantire uno sviluppo che sappia coniugare tradizione e innovazione, è necessario porre l’uguaglianza di genere al centro del dibattito politico e della politica.
Michele Cossa – Consigliere regionale dei Riformatori
(admaioramedia.it)