Analizzando i boschi da Belvì fino ad Aritzo, passando poi per Desulo, Tonara, Gadoni ed oltre, viene una certa malinconia nel constatare come l’abbandono, protratto ormai da decenni, abbia rovinato gran parte dei noccioleti zonali. Rovi in ogni dove, piante rinsecchite o funestate da malattie, terreni, un tempo emblema di pulizia e vocazione agricola, ridotti ad una boscaglia.
Sono poche le eccezioni di coloro che, nel comprensorio della Barbagia-Mandrolisai, si prendono ancora cura delle proprietà campestri familiari. Ancor più rare, quelle di chi ha deciso di investire nella nocciolicoltura. A partire dagli anni ‘80, il territorio si è svuotato di forza lavoro e le ‘mosche bianche’ che hanno continuato a dedicarsi alla vita agricola, e dunque alla coltivazione del nocciolo, sono rimaste ferme alla concezione di un frutto da vendere nelle sagre paesane o, addirittura, indirizzare al consumo proprio. Nessuno, se non alcuni produttori, si è adeguato alle esigenze di un mercato dell’agroalimentare in rapido cambiamento, con impianti moderni, muniti di laghetti irrigui collinari, controlli frequenti e non consuetudinari. E mentre nei comuni montani continua a spadroneggiare la logica dello sviluppo indirizzato alle opere pubbliche, all’orizzonte non si scorgono sufficienti iniziative mirate a sensibilizzare le popolazioni ad un ritorno al bosco.
Un misto di rabbia e invidia nel constatare, invece, come nella Penisola (l’alto Viterbese, le Langhe, l’Irpinia o il Messinese) siano stati lungimiranti da decenni, diventando produttrici leader in Italia di nocciole, aggiudicandosi oltretutto partnership con grosse multinazionali. La Ferrero ne è un esempio: i dolciumi del colosso di Alba, come la celebre Nutella, sono prevalentemente composti da nocciola di provenienza turca e in parte nazionale. Da qui la scelta dell’azienda di lanciare il progetto “Nocciola Italia”, volto a sostenere una produzione agricola di qualità 100% italiana, attraverso un sistema di sviluppo zonale ed un sostegno agli imprenditori agricoli del Paese, con l’obiettivo di arrivare a 20.000 ettari di nuove piantagioni entro il 2025.
L’opportunità è ghiotta e, mentre oltre Tirreno si muovono i primi canali per dar vita alla nuova filiera, in Sardegna tutto tace. Uniche certezze, gli interventi di qualche consigliere regionale che sogna un ruolo primario di Forestas e il disinteresse degli amministratori comunali, blindati nella convinzione che le eterne trasfusioni di assistenzialismo sociale daranno ancora ossigeno ai territori. Un’isola dai due volti: da un lato, una terra in difficoltà e giustamente lamentosa verso la mala politica; dal’altro, le sue Istituzioni, impenetrabili ai momenti propizi, ma soprattutto non al passo con il futuro. Sarebbe opportuno se la Regione non si fermasse ai comunicati stampa, bensì, attraverso i vertici di Laore e Agris, sfruttasse l’occasione, stilando un protocollo d’intesa con la stessa Ferrero, volto a preparare i comuni barbaricini al progetto, attraverso incontri pubblici di sensibilizzazione e successivi bandi. Dinanzi ad una strategia del genere, risulterebbe impensabile una scarsa partecipazione dei produttori. Tutto ruota intorno a stimoli e input. La Giunta regionale muova i primi passi, i portatori d’interesse non mancheranno.
Giorgio Ignazio Onano
(admaioramedia.it)