La vertenza dei pastori sardi, decisi a buttare via il latte o a regalarlo piuttosto che venderlo per la misera somma di 60 centesimi di euro, ha finalmente portato alla ribalta nazionale il problema di un settore chiave dell’economia sarda, che ha non solo una valenza economica, visto che nell’Isola si concentra quasi la metà del patrimonio ovino nazionale, ma investe anche aspetti culturali ed identitari: non a caso il termine di civiltà pastorale si adatta benissimo alla storia e al costume dei Sardi.
Le difficoltà del settore lattiero-caseario sono assai antiche e ricorrenti nella storia dell’Isola. La vera novità è che la crisi avviene nell’anno ‘1’ della rivoluzione lego-grillina, che quanto a voglia di fare e affrontare di petto le varie questioni nazionali non è seconda a nessuno, anzi, a detta di molti, eccede in avventatezza, spregiudicatezza e temerarietà. A differenza dei precedenti governi, che queste rogne lasciavano volentieri che se le sbrogliassero i governi regionali, quello attuale, nella sua componente leghista, ha preso in mano la situazione coinvolgendo la Regione per quel tanto che poteva dare, sopratutto in termini di quattrini, ma muovendosi a livello nazionale col ministro dell’agricoltura, il leghista Centinaio, e agendo in maniera tempestiva e pressante presso i commissari europei, avvalendosi anche dell’appoggio del presidente del Parlamento europeo, il forzista Tajani. Non sarà facile approdare ad una soluzione duratura e soddisfacente per tutti, ma, in ogni caso si è sulla buona strada.
In altre situazioni difficili, i Sardi se la dovettero sbrigare da soli con risultati non certo disprezzabili. Nei primi decenni del secolo scorso, per certo numero di anni, la Sardegna ebbe un ras, prima sardista e poi sardo-fascista, Paolo Pili, che aveva fatto gli studi giusti. Aveva frequentato l’Istituto Agrario di Cagliari ed aveva avuto un grande maestro: il professor Sante Cettolini. Così lo descrive Pili: “…Veneto, un grande uomo che era da molto in Sardegna, che mi diceva sempre: ‘E’ possibile che i sardi debbano lasciarsi governare dai monopoli, non capite che questi sono la peggior piovra che sia mai capitata in questa terra? Quelli succhiano tutto e vi rovinano”. ‘Quelli’ erano imprenditori romani che appunto avevano creato il cosìddetto ‘pecorino romano’, come si chiama tutt’oggi. Pili aggiunge anche: “Quelli che producevano il formaggio di tipo romano avevano fatto fare un grosso passo in avanti a tutta la produzione dal punto di vista industriale, perché quella precedente era costituita dal formaggio di tipo bianco, detto ‘Barcellona’, forse il peggiore che si producesse nel mondo. Veniva fatto dai pastori in campagna, poi immesso nelle vasche o in grandi tinozze di legno con una salamoia satura. Li rimaneva sino a quando non si riusciva a venderlo, quindi con esso esportavamo più sale che formaggio… Dopo erano venuti i romani, avevano messo su grandi stabilimenti industriali, cioè stalle maleodoranti, pagliai e tettoie. Non è che fossero venuti con l’idea di farci vedere cose diverse, però lavoravano un formaggio che andava meglio sul mercato, specialmente in quello americano, ed avevano realizzato così immensi guadagni sollevando anche, tuttavia, le condizioni dei pastori. Ma era sempre un monopolio senza scrupoli e la Sardegna veniva impoverita sempre più dalle esigenze del regime di monopolio”.
Nel 1924, Paolo Pili è ormai un potente (federale di Cagliari, deputato, direttore dell’Unione Sarda) e passa all’azione nel campo caseario: “Mi misi in testa di mettere la produzione casearia nelle mani dei pastori, togliendola a quei signori. Creai delle latterie sociali. In principio furono 15, altre erano già presenti da prima, come quella di Bortigali e di Bonorva. Quando raggiungemmo il numero di 24-25 indissi una riunione ad Ozieri per istituire la Federazione facendo intervenire deputati, prefetti, insomma dando il massimo rilievo alla cosa. Naturalmente telegrammi di Mussolini, del segretario del partito etc. Fatta la federazione, eravamo nel 1925, cominciammo a lavorare e nel marzo del 26 andai in America, con un altro consigliere della federazione, per cercare di introdurci in quel mercato”. Giunto a New York, il Console d’Italia lo mise in contatto con alcuni grossi commercianti italiani.
Pili ebbe però la sgradita sorpresa di constatare che costoro erano tutti rappresentanti dei monopolisti romani, cioè dei suoi nemici. Tuttavia non si perse d’animo e dopo svariati tentativi il vicedirettore di una banca italiana, un certo Olivetti, gli fece conoscere il principale importatore di formaggi di New York che a sua volta lo mise in contatto con la ditta “Galle & C.”: “Galle – racconta Pili – mi disse: ‘Io vi compro qualunque quantità di formaggio perché sono sicuro che, essendo la Sardegna un’isola, se voi stessi mi manderete il formaggio quegli altri non potranno mandarlo ai concorrenti. Mi impegno per quello che avete e anche per quello che avrete dopo, anche per tutto il formaggio che produce la Sardegna’. E quando gli dissi che potevamo esportarne 50.000 quintali, mi rispose che per lui era uno scherzo, mi pare avesse 7-8.000 grossisti. Il primo anno mandammo poco formaggio, la nostra scorta era di appena 5.000 quintali. Ma ciò creò una situazione curiosa: in Sardegna i pastori, anche quelli che non erano delle latterie, ricevettero una maggiorazione del prezzo del latte di 50 centesimi al litro. Poiché il latte costava circa 2 lire al litro, 50 centesimi era molto. Tutta l’operazione portò un grande benefizio alla federazione, ai pastori che vi erano e un grande benefizio anche a tutti gli altri. Del resto lo scopo principale era quello di creare un movimento che ci permettesse di uscire dalle maglie del monopolio in modo che gli industriali sentissero la concorrenza e conseguentemente anch’essi si adattassero ai prezzi. La federazione funzionò benissimo tanto che, dopo un anno di lavoro,con la parte che le rimase degli utili, poté costruirsi una modernissima cremeria a Macomer; spendemmo un milione”.
Angelo Abis
(sardegna.admaioramedia.it)