Stranamente nel volume “La Sardegna e la guerra di liberazione – Studi di storia militare” (edito dall’Istituto sardo per la storia dell’antifascismo e della società contemporanea), curato dallo storico sassarese Daniele Sanna, con gli scritti di Walter Falgio, Francesco Ledda, Giuseppe Manias e Giuseppe Sassu, si parla di tutto fuorché dell’antifascismo sardo, quello che era tale anche prima della caduta del fascismo.
Invece, si dà voce a due personaggi, Giuseppe Dessì e Francesco Spanu Satta, che col fascismo avevano ampiamente convissuto ricevendone favori, salvo risvegliarsi antifascisti ‘a babbo morto’. Così come è assente un qualunque approfondimento sullo stato d’animo della popolazione sarda, salvo citare una diceria del parroco don Pirlo, totalmente falsa, su una presunta ostilità degli abitanti di Paulilatino nei confronti dei militari e la loro volontà di farsi gestire dagli americani, per i quali, al contrario, mostravano avversione, avendo subito numerosi morti a seguito delle incursioni da parte delle superfortezze Usa. Quanto alla statura di don Pirlo, circolava nel paese una strofa: “Sa macina de Villasor (paese di don Pirlo, nda) non pode macinai, bogainceddu a Pirlone chi non schiri a preigai”. Manca, inoltre, ogni considerazione di come la popolazione sarda si rapportò ai militari tedeschi stanziati in numerosi comuni dell’isola. Salvo riferire due episodi avvenuti nei pressi di Oniferi e Baressa, nei giorni successivi all’armistizio, costati la vita a tre soldati italiani. Ciò che lascia perplessi, non è tanto l’uccisione dei tre militari, quanto volerla attribuire all’assoluta crudeltà e gratuità messa in atto dai tedeschi, che difficilmente agivano senza una motivazione e senza ordini superiori.
Evidentemente, negli autori del libro c’è la tendenza, direi quasi istintiva, di attribuire uccisioni non chiare o non chiarite alla innata e incontrollata crudeltà tedesca, che poi si compendia nella facile equazione soldato tedesco=nazista. Ciò appare evidente quando si rievoca il tragico episodio dei 18 militari sardi uccisi nelle campagne della cittadina laziale di Sutri, che furono rastrellati nella campagna di Capranica, caricati su un camion e sorvegliati da un solo soldato tedesco. Per i sardi fu un gioco da ragazzi disarmarlo e ucciderlo con la sua stessa baionetta. Per loro disgrazia incocciarono un altro camion di soldati tedeschi e si diedero alla fuga, ma furono tutti uccisi eccetto uno, Fernando Zuddas, che riuscì a mettersi in salvo. Come poi risultò dalla perizia medica i militari sardi risultarono colpiti a morte dai proiettili che li avevano raggiunti alle spalle e nella parte inferiore del corpo, tipico di chi è in fuga e non di chi viene ucciso a sangue freddo. C’è da sottolineare che quello dei sardi fu un atto eroico che sfatava la sicumera dei tedeschi abituati a catturare interi reggimenti italiani anche con una sola pattuglia di soldati. Avrebbero meritato di essere decorati al valore militare, perché caduti in combattimento, invece furono chiamati “martiri”, cioè vittime inermi di un nemico crudele.
Comunque, è indubbiamente meritorio ricollocare la Sardegna al centro dell’indagine storiografica, segnatamente per gli avvenimenti successivi all’8 settembre, perché, paradossalmente, tutti gli attori della guerra, bene o male, osservarono le clausole dell’armistizio solo in Sardegna: gli alleati, a differenza che nel resto d’Italia, non intrapresero nessuna azione bellica contro l’Isola; i tedeschi concordarono col Comando italiano l’abbandono dell’Isola. Sul piano interno, gli effetti dell’armistizio, a differenza del resto d’Italia, furono ancora più eclatanti: nessuna ignobile fuga degli alti comandi militari, nessun saccheggio dei depositi militari, niente diserzioni o abbandono delle armi da parte dei soldati e non da ultimo sia l’apparato militare che quello civile mantennero il controllo sulla popolazione garantendo il vivere civile. Ma non è molto chiaro il riferimento alla guerra di liberazione come guerra sacrosanta, indetta dal Regno del Sud, a partire dal 13 ottobre 1943, data della consegna della dichiarazione di guerra alla Germania. Caso singolarissimo, l’entrata in guerra ci doveva automaticamente porre come stato alleato nel contesto delle Nazioni unite, invece fummo relegati al rango di cobelligeranti, cioè di soldati che, pur dovendo morire per la causa comune, conservavano lo status di ‘nemici’. Del resto agli Alleati non importava niente dell’apporto italiano e non per scarsa fiducia nel soldato italiano, ma per una ragione semplicemente politica: l’Italia, fascismo o non fascismo, doveva arrivare alla fine della guerra come paese sconfitto. Già il 21 settembre 1943, il generale Mac Farlane, comandante della missione militare alleata, disse che le truppe italiane “non avrebbero dovuto partecipare a combattimenti sino a nuovo ordine”. Successivamente il generale Alexander affermò che, in vista della liberazione di Roma, non era previsto l’apporto di forze italiane.
Che la nostra partecipazione alla guerra di liberazione fosse una presa in giro se ne accorsero in primis i sardi, allorché il Governo Bonomi, nel gennaio 1945, chiamò alle armi le classi 1914-1924, compresi coloro che ne erano stati esentati in precedenza. Ci furono forti manifestazioni di protesta. a Cagliari scesero in piazza non solo i fascisti, ma anche i sardisti e i comunisti della sezione di via Manno, a Sassari si formò addirittura un corteo di militari, mentre i giovani studenti subordinarono il loro assenso alla chiamata alla rivelazione delle clausole segrete del cosi detto armistizio lungo; in tutta l’Isola si registrarono 3.500 renitenti alla leva. Mentre sul piano militare, oltre la totale inaffidabilità dei paracadutisti della Nembo, occorre ricordare l’ammutinamento della divisione Sabauda al momento del suo imbarco nel porto di Cagliari nel novembre 1943, senza contare i numerosi gruppi di militari che con ogni mezzo tentarono di raggiungere il territorio della Repubblica sociale italiana (Rsi).
Più interessante la figura del comandante partigiano sardo Nino Garau (nel saggio di Walter Falgio), che è assodato abbia combattuto con valore e sagacia, oltre i limiti del possibile, la guerra contro i tedeschi e i fascisti: un valoroso comandante che vola di vittoria in vittoria sino alla fine della guerra, ma poi cambia tutto. Persino nella zona rossa, che più rossa non si può, incontra freddezza e ostilità e Garau non se ne capacita. Dà la colpa a Scelba e al mutato clima politico, ma la realtà vera fu che gli Alleati consideravano i partigiani truppe irregolari da usare alla bisogna, salvo disfarsene poi a obbiettivo raggiunto. La sconfitta dei partigiani e della resistenza parte l’8 dicembre 1944: a Roma una delegazione del Clnai, composta da Alfredo Pizzoni, Edgardo Sogno, Ferruccio Parri e Giancarlo Paietta, firma con il comandante degli anglo-americani nell’area del Mediterraneo, generale Wilson, i cosiddetti “Protocolli di Roma”, il cui contenuto è praticamente inspiegabile se non si dice che prima della firma gli Alleati chiesero e ottennero che i capi del Comitato di liberazione sottoscrivessero il cosiddetto “armistizio lungo”, ovvero la resa incondizionata dell’Italia agli Alleati. Fu un vero e proprio suicidio della resistenza, che con tale atto cessava di essere una identità politico-militare sovrana ponendosi nella condizione di uno stato sconfitto alla stessa stregua del Regno del Sud. Evento che suscitò le ire del solo Sandro Pertini, unico ad aver capito dove gli Alleati andavano a parare. I protocolli davano per scontato che con la ritirata dei tedeschi le formazioni partigiane passassero “alle dipendenze dirette del comandante capo dell’Allied armies in Italy” ed eseguissero “qualsiasi ordine dato da lui o dal governo militare alleato in suo nome; compresi gli ordini di scioglimento e di consegna delle armi”. Lapidario il giudizio dello storico Ginsborg: “I protocolli di Roma segnarono una sostanziale sconfitta della Resistenza”. Chiaro pure l’obbiettivo degli Alleati: evitare che nel nord Italia si installasse un governo italiano autonomo per nulla vincolato dalle clausole dell’armistizio.
Da qui discendono tutte le amarezze di Garau nel dopoguerra. Dal consiglio degli amici modenesi di tornarsene in Sardegna, perché in zona non tirava aria buona per lui, alla fredda accoglienza riservatagli dalla società cagliaritana al suo rientro, per finire con l’arresto a Cagliari nel 1949 ad opera del commissario Michele Savastano, ex commissario dell’Ovra di Cagliari, noto per i suoi metodi ‘rudi’ negli interrogatori degli indagati, che fu epurato in quanto fascista e poi riammesso in carriera a seguito dell’amnistia Togliatti nel 1946. Quindi, l’amara decisione di tenere per sé, per oltre un cinquantennio, la sua esperienza di partigiano, tacendo anche con gli amici più intimi. Perciò, ci si pone un interrogativo, non solo per Garau ma anche per tanti altri personaggi del libro: come è possibile che dei valorosi combattenti di due guerre ritenute giuste e condivise da tutto il popolo italiano poi si sentano come ‘esuli in patria’, per usare un’espressione cara ai fascisti? Questo, purtroppo, il libro non lo spiega.
Angelo Abis
(admaioramedia.it)