Micropolis è un mensile umbro che si occupa di politica, economia e cultura e si accompagna in edicola col quotidiano comunista “Il Manifesto”. Nel numero di agosto, ha pubblicato un articolo di Angelo Bitti, “Poliziotti abusivi contro la resistenza”. L’articolo parla di alcuni episodi della resistenza che hanno avuto come teatro i comuni umbri di Amelia e Alviano e, come “poliziotto abusivo”, il poeta cagliaritano Gaetano Pattarozzi.
L’articolo termina con il classico pistolotto a effetto: “Ancora una volta sui crimini perpetrati dai fascisti (Pattarozzi, nda) nella guerra civile calava un silenzio interessato e assordante. Del resto, come ammoniva Elie Wiesel, il silenzio aiuta il carnefice mai il torturato”. Che sugli episodi sia calato un silenzio assordante è falso, visto che ancora nel 2009 nella “Memoria Storica”, rivista del centro studi storici di Terni, lo storico Marcello Marcellini, legale della Cgil, consultando le carte dei tribunali aveva ribaltato la vulgata della resistenza, facendosi la fama di Pansa dell’Umbria, e rievocato l’episodio precisando che “...per questa ricerca mi sono avvalso principalmente degli atti processuali contenuti nel fascicolo del procedimento penale a carico del commissario Pattarozzi e di altri dodici fascisti che iniziò nell’immediato dopoguerra a seguito della denuncia presentata da Dionisio Santi…”. Secondo lo storico umbro, la guerra civile nella zona ebbe inizio con l’uccisione di un sardo, il maresciallo dell’Esercito Pietro Manunta, nativo di Bosa: venne sequestrato da un gruppo di giovani antifascisti, tenuto segregato per circa una settimana in una casupola, poi “...venne portato sul monte Buttanello dove fu ucciso con un colpo d’ascia alla testa da Avodio Santi, di anni 60, detto il Roscio, zio di Dionisio. Il suo corpo fu poi gettato in un burrone e non fu mai ritrovato…”.
Ovviamente l’uccisione di Manunta non trova spazio nell’articolo di Micropolis, che ha il suo incipit con le violenze fasciste di Pattarozzi: “…Ancora più indicativo dei livelli di violenza raggiunti è l’operato della Squadra federale attiva ad Amelia, formata da un gruppo di fascisti locali guidati dal fondatore del locale fascio repubblicano Gaetano Pattarozzi, originario di Cagliari ma residente nella città umbra, autoproclamatosi commissario. Nipote del politico liberale sardo Francesco Cocco-Ortu, fascista convinto, amico di Filippo Tommaso Marinetti ed esponente di spicco del movimento futurista sardo”. Secondo il giornale, nelle sue malefatte, Pattarozzi era coadiuvato dal cognato Rolando Palmieri, ex ufficiale dell’esercito, ad Amelia nella primavera 1944. Il 12 marzo, nei pressi di Alviano, un gruppo di cinque giovani renitenti alla leva, appartenenti a una piccola formazione partigiana locale, attaccò l’auto con il federale di Terni, Alberto Coppo, Pattarozzi e la moglie: nell’azione rimase ucciso l’autista del mezzo. Una trentina di persone di Alviano furono arrestate e trasportate nelle carceri di Amelia con l’accusa di essere coinvolte nell’attentato: “Immediatamente scattano maltrattamenti e torture efferate, i fascisti intendono identificare esecutori e ideatori dell’attentato – racconta Bitti – Le deposizioni degli arrestati, alcuni dei quali malati cronici o anziani, rilasciate ai carabinieri nel dopoguerra, rappresentano una testimonianza drammatica delle sofferenze sopportate. Il ventiquattrenne Primo Sisti ricorda come, su ordine di Pattarozzi, lui e gli altri arrestati furono percossi con pugni e schiaffi… poi percossi brutalmente sulle natiche nude con una fune. Alla fine del maggio 1944, Pattarozzi si stabilì a Parma dove assunse l’incarico di commissario del Comune e dove si arruolò nella locale Brigata nera, partecipando attivamente alla lotta antipartigiana. Arrestati subirono dure condanne: a morte e a vari anni di reclusione. Pattarozzi in particolare venne recluso in un campo di prigionia britannico per criminali di guerra, ben presto però fu liberato e iniziò a collaborare con la polizia militare statunitense nella caccia ai criminali di guerra. Grazie a indulti e amnistie varie, videro ridotte le loro pene, tanto che agli inizi del 1952 per la legge italiana si poteva definire chiusa la loro vicenda giudiziaria. Così Pattarozzi, tornato in Sardegna, poté riprendere l’attività politica e già nel 1951 a Cagliari fu eletto segretario provinciale del Msi, mentre nel 1953 veniva candidato alle elezioni politiche. Sui crimini perpetrati dai fascisti nella guerra civile calava un silenzio interessato e assordante”.
Questa, invece, la versione dello storico Marcellini: “…Il 12 marzo ’44, Coppo, una volta giunto ad Amelia, si incontrò con Gaetano Pattarozzi, commissario federale del fascio locale, nonché commissario ausiliario di polizia, il quale volle accompagnarlo ad Alviano con la sua Fiat 1100 nera guidata dal giovane autista Luigi Senisi, ausiliario di polizia di diciannove anni». Al rientro da Alviano, “mentre la macchina stava per attraversare un ponticello, sbucarono cinque uomini armati che scaricarono i loro moschetti contro la macchina, dandosi poi alla fuga. L’autista Senisi, colpito al cuore e a un polmone, spirò quasi subito. Due pallottole sfiorarono le guance di Pattarozzi mentre un’altra gli bruciò i capelli. Coppo rimase ferito alle mani e al volto da schegge di vetro. […] Il fatto preoccupò tutti gli abitanti di Alviano, che deplorarono l’accaduto, mentre molti presagirono le conseguenze che dall’atto insano, quanto inutile, sarebbero scaturite. […] Alle ore 16 del 13 marzo piombò su Alviano un camion tedesco con una trentina di paracadutisti, una squadra di agenti del commissariato di Amelia e alcuni militi della Gnr tutti agli ordini di un certo capitano Schweigher. A breve distanza sopraggiunse una macchina con quattro uomini in borghese, fra cui Pattarozzi. Altri arresti da parte della polizia di Amelia si susseguirono sino ai primi di maggio“. Di seguito Marcellini, dando voce alle testimonianze degli arrestati, descrive le torture fatte infliggere da Pattarozzi nel corso degli interrogatori: “Le tecniche escogitate da questo singolare personaggio per fare parlare gli arrestati furono le più varie e abbastanza efficaci. Lui, giornalista, poeta futurista amico di Marinetti, e per giunta sposato con una professoressa di lettere, non era certo tipo da usare le mani. Questo compito lo lasciò ai suoi subordinati. Si cominciava con i pugni e con gli schiaffi e poi, se il malcapitato si ostinava a non parlare, si passava alle frustate, vibrate con una fune bagnata e annodata. […] Avodio Santi per la prima volta riuscì a resistere a quei ‘tormenti’, come li definì, ma quando fu sottoposto alla seconda flagellazione confessò di essere stato lui ad uccidere Manunta. Sante Carletti, dopo essere stato percosso e fustigato, fece i nomi sia degli uccisori di Manunta sia degli attentatori del federale e di Pattarozzi…”.
Per tutti questi episodi, Pattarozzi a partire dal 1945 fu processato in contumacia, ma il racconto di Marcellini prosegue con un colpo di scena: «Inaspettatamente, il 21 ottobre 1946, si presentò (Pattarozzi, nda) al suo ufficio (del giudice istruttore, nda) accompagnato da un brigadiere dei carabinieri e dal capitano Anzil. […] L’ufficiale americano intervenne per precisare che il prigioniero era stato accompagnato dal giudice soltanto per essere interrogato e non per essere consegnato alla magistratura italiana. […] Aggiunse che si era recato ad Alviano il 12 marzo 1944 per impedire che i paracadutisti comandati dal maggiore tedesco Schweigher incendiassero l’intero paese. […] Avrebbe anche ottenuto che le persone arrestate fossero consegnate a lui e non portate a Sangemini al comando tedesco. Una volta condotti al commissariato di Amelia, gli Alvianesi non sarebbero stati seviziati, anche se alcuni di loro subirono percosse da parte dell’agente ausiliario Nello Barbaccia. Pattarozzi ammise di aver detto ad alcuni detenuti che sarebbero stati fucilati. Con questo sistema (e non con le sevizie) disse di essere venuto a sapere che il movente dell’uccisione di Pietro Manunta sarebbero stati soltanto i soldi. […] Al termine dell’interrogatorio Pattarozzi volle che fosse verbalizzata la seguente dichiarazione: “Ho agito sempre in buona fede per puro spirito di italianità e ritenendo di ubbidire al governo legittimo. Non ho mai collaborato con i Tedeschi. […] A questo proposito tengo a precisare che il 26 maggio 1944 venni arrestato dai Tedeschi e trasferito al carcere di Perugia. […] venni condannato a morte dal tribunale militare tedesco di Perugia per sabotaggio, essendomi rifiutato di obbedire ai loro ordini, e per aver bastonato un ufficiale tedesco. Contro questa sentenza feci ricorso al maresciallo Kesserling; nelle more del ricorso precipitarono gli eventi, così potei ottenere la libertà. Esibisco in visione il Mod. 43, rilasciatomi dal direttore delle carceri di Perugia ed attestante la mia detenzione in detto periodo».
Marcellini esprime dubbi sulla deposizione di Pattarozzi, eppure non può fare a meno di ammettere che “comunque per alcune sue affermazioni vi erano dei riscontri oggettivi. Era innegabile, infatti, che nonostante fossero stati individuati coloro che avevano ucciso Manunta, nessuno di costoro era stato fucilato dai fascisti. Anche la circostanza del suo arresto da parte dei Tedeschi trova conferma nella dichiarazione scritta del direttore dell’Istituto salesiano“. Questi i fatti. Padronissimo il mensile umbro di raccontare solo alcuni pezzi di storia e di considerare Pattarozzi torturatore e criminale di guerra. Rimane, però, sempre valido il giudizio che il capo del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti espresse sul poeta cagliaritano: “Sangue sardo + futurismo x fascismo = Gaetano Pattarozzi, grande aeropoeta non preveduto dagli avi…”.
Angelo Abis
(admaioramedia.it)