Si affaccia sui ‘banchetti’ in Sardegna una proposta referendaria, sulla scia di quella lombardo/veneta, ma il punto cardinale su cui si ferma l’ago calamitato della bussola referendaria è il riconoscimento costituzionale dello status di insularità. Il nesso tra la proposta referendaria sarda e quella veneto/lombarda, che si rifà all’attuale articolo 116 (terzo comma), della nostra Carta Costituzionale, è difficile da rinvenire: il quesito veneto si fonda sulla richiesta di ulteriori forme d’autonomia, quello lombardo richiama le possibilità consentite dalla Costituzione in termini di maggior autonomia. Il referendum consultivo, non possedendo carattere di necessarietà, è per definizione stessa, ma anche per sua natura, un mero strumento politico di appoggio ad un’iniziativa.
La Sardegna col baluardo dell’insularità chiede sia modificata la Costituzione per inserire il riconoscimento di un principio come obiettiva situazione locale di svantaggio, indirizzo già espresso dal Parlamento europeo. È certo che lo Stato debba garantire la continuità territoriale, che l’Isola soffra del tallone d’Achille dei collegamenti aerei, che versi in condizioni di svantaggio e necessitino misure per conferirle uguali possibilità del resto d’Italia, in un quadro di unità nazionale. Ma ricorrendo a modifiche costituzionali, il rischio è che la Corte Costituzionale giudichi illegittima la proposta.
E’ possibile chiedere allo Stato misure legislative, amministrative e finanziarie volte a compensare svantaggi che l’insularità calamita, ma avanzando una proposta di legge ordinaria si rischia un riconoscimento basculante. La terra sarda possiede già un’ampia autonomia e dovrebbe essere lo Stato ad erogare fondi e sovvenzioni per garantire la continuità territoriale, mentre Lombardia e Veneto al Governo chiedono un ampliamento dell’autonomia per svolgere funzioni di competenza esclusiva dello Stato. In merito alle autonomie regionali, l’azione dello Stato è da tempo imperniata su criteri di massima centralizzazione e riduzione delle autonomie, nonostante l’approvazione nel 2001 di una riforma costituzionale che ampliava il raggio dell’autonomia delle Regioni, ordinarie e speciali. Il progetto del 2016, poi non approvato per via referendaria, era invece orientato verso la centralizzazione, pur esentando formalmente le Regioni a statuto speciale. Ma se quell’orientamento avesse vinto al Referendum, avrebbe coinvolto anche le autonomie speciali. Dal 1948, la realtà è cambiata e le ragioni storiche che allora indussero ad istituire le Regioni speciali erano proprio l’insularità, nel caso della Sicilia e della Sardegna, e la presenza di minoranze linguistiche, nel caso delle Regioni alpine. Per le isole non è venuta meno l’insularità, ma è da chiedersi quale utilizzo dell’autonomia si sia fatto.
Se l’interpretazione giuridica non è un’opinione, la sentenza numero 496/2000 della Corte costituzionale ha dichiarato l’inamissibilità di un referendum consultivo regionale che incideva su una iniziativa di legge costituzionale. Richiedere l’inserimento dell’insularità in Costituzione è un’esigenza legittima che andrebbe tradotta in provvedimenti concreti, altrimenti rischia di rivelarsi un colpo di zappa sui piedi.
Federica Pinna
(admaioramedia.it)