Quest’anno ricorre l’ottantesimo anniversario della morte di Antonio Gramsci. Le manifestazioni ufficiali in suo onore sono molteplici, ma, salvo qualche rara eccezione, si discostano ben poco dal solito cliché, ben descritto dallo storico gramsciano Luigi Nieddu: “…Passerà ancora un anno e il mito di Gramsci, fondatore e capo del partito; vittima illustre della repressione fascista e di Mussolini in particolare; militante disciplinato dell’Internazionale (comunista, nda), sarà finalmente una realtà… Nessuno scrittore del nostro tempo è stato più manipolato di Gramsci. Gramsci è stato studiato più sulla base di ciò che altri hanno detto di lui che sulla base di quanto egli ha realmente scritto. Per qualche tempo Gramsci è stato presentato come un autentico storico del Risorgimento… come il teorico dello stato moderno, come il modello dell’intellettuale impegnato… che, oltre tutto ciò era anche comunista”.
Eppure, in quest’ultimo periodo, al di là del mito, riappare, grazie all’opera di alcuni storici (fra cui lo stesso Nieddu), filosofi e uomini di cultura intellettualmente onesti, anche di sinistra, un Gramsci diverso, meno internazionalista, più legato alla realtà nazionale e isolana, dove, spesso, certi valori, diciamo pure ‘borghesi’, quali l’amicizia, l’amore, la famiglia, la propria terra fanno premio sul rigore rivoluzionario, sull’odio politico, sugli schematismi ideologici. Questo è il Gramsci che ci piace oggi commemorare con un ritratto del pensatore sardo fatto da un suo carissimo amico-nemico: Paolo Pili. All’epoca, primo federale fascista di Cagliari, eletto deputato alle elezioni del 1924 insieme a Gramsci. Un racconto tratto da un’intervista, rilasciata, negli anni 70 ad Oristano, da Pili al docente dell’Università di Cagliari, Leopoldo Ortu, alla presenza di altri due illustri professori: Danilo Murgia e Giovannino Porcu: «…Nino era un tipo terribile, eravamo in un periodo in cui era sempre ingrugnito, non parlava mai con nessuno, neppure con il suo gruppo di comunisti. Un giorno, nel corridoio dei passi perduti (Camera dei deputati, nda), mi tirò per la giacchetta, gli chiesi: “Come mai ti avvicini a una bestia immonda come me?”, mi rispose di non dire stupidaggini e ci sedemmo. Ricordo, che in quel momento Mussolini e Federzoni uscirono insieme dall’aula e, vedendomi con Gramsci, fecero un viso così curioso che non posso dimenticarmelo, specialmente Mussolini, un viso divertito insomma».
«Gramsci – prosegue il racconto di Pili – mi ricordò che le sorelle si erano sposate ricamando per la gente e che Carlo (fratello di Antonio, nda), pur volendo lavorare, non riusciva a trovare alcun posto, mi pregò di trovargliene uno qualsiasi. Gli risposi che appena tornato in Sardegna avrei chiamato Carlo per prenderlo a pugni perché egli stesso sarebbe dovuto venire da me, evitando così a lui, Nino, il dispiacere, certamente grande, di dover chiedere simili cose. Comunque gli promisi di sistemarlo subito, prendendolo con me stesso, nel settore economico della segreteria del partito. E così feci tenendolo sempre con me. Quando Gramsci fu arrestato facemmo di tutto per consentirgli di scrivere, di leggere e altro. Se si leggono le lettere dal carcere si troverà che in esse è stata concessa qualcosa anche a me, esattamente ove è scritto: “Questo è sempre per l’intervento di quella persona che sa Carlo”. Una volta Carlo mi disse che lo avevano messo in una stessa cella con due tubercolotici. Scrissi subito una lettera terribile a Mussolini ove dicevo che gli avversari politici non si dovevano trattare così. Mi rispose che non era vero, ad ogni modo aveva disposto che la salute di Gramsci fosse esaminata etc. Poi finirono col mandarlo in una specie di villa sanatorio, ove morì. Mi diedi sempre da fare per lui, anche quando non ero più niente nel fascismo e non mi associavo più alle loro idee; ma per queste cose continuavo a scrivere e a seccare l’anima. Gramsci, poveretto, era un grande uomo».
Non è ben definito quando ebbero inizio i rapporti tra Paolo Pili non solo con Antonio ma anche con altri componenti della famiglia Gramsci. Un piccolo accenno lo fa lo stesso Pili in un’altra parte dell’intervista, quando parla della sua fine di leader fascista avvenuta nel 1927: «…finchè ci rimasi io fu garantita l’autonomia d’azione e il fascismo ha funzionato da sardismo, tanto è vero che Gramsci, quando caddi, scrisse al fratello che con la mia caduta era caduto il PSd’Az. Al riguardo pochi sanno che io tenni sempre con me Carlo, il fratello di Gramsci. Mia moglie era stata chiamata alle scuole elementari con Teresina» (Teresina Gramsci era segretaria del fascio femminile di Ghilarza, molto ben ammanigliata con le gerarchie del partito, nda). E’ certo però che il rapporto Pili-Gramsci fosse già molto stretto quando Pili era solo un alto esponente del sardismo, ben lungi dall’immaginare che sarebbe diventato il gerarca che avrebbe convinto Mussolini a promulgare la famosa legge del miliardo per le opere di infrastrutture della Sardegna.
Siamo agli inizi degli anni Venti e Pili così racconta: «Ero contrario alla costituzione delle così dette cooperative agricole, quelle che occupavano i terreni. Di queste ce ne erano ad esempio a Bonorva, a Silanus, a Bortigali, ce ne era una a Solarussa che aveva combinato un sacco di guai. Ero contrario e avevo parlato a lungo del problema con un mio carissimo amico, Antonio Gramsci. Ed egli in un suo libro che parla espressamente della ‘Questione Meridionale’ ad un certo punto scrive: “…voi date la terra al contadino, egli in un primo momento sarà orgoglioso di essere diventato proprietario, ma quando si troverà senza danaro per comprare concimi, aratri, gli altri arnesi da lavoro per sostenere la famiglia non sarà più un comunista o un socialista, sarà un delinquente che desidera ammazzare gli altri, perché disperato”. Queste sono le parole di Gramsci che sentiva la questione meridionale. Era un sardo povero che aveva sofferto moltissimo durante la sua giovinezza, sapeva cosa voleva dire la miseria della Sardegna e non diceva nulla neppure contro i benestanti della Sardegna, metteva tutto il popolo in un solo fascio, un popolo povero e disperato. Queste sono le parole di Gramsci che sentiva la questione meridionale. Era un uomo che aveva una grandissima cultura, un senso di umanità straordinario, una persona molto seria. In quest’affare delle cooperative eravamo quasi d’accordo…».
Angelo Abis
(admaioramedia.it)