Creare posti di lavoro, combattere l’evasione fiscale, ridurre la spesa pubblica, ridurre la pressione fiscale, intervenire sulla corruzione dilagante, erogare contributi alle imprese per poter assumere dipendenti, introdurre un reddito di cittadinanza, ridurre le pensioni d’oro, modificare la Costituzione, aumentare gli investimenti pubblici, combattere il lavoro nero, aumentare l’esportazione dei prodotti Made in Italy. Sono queste le ricette che i nostri politici e i loro economisti e giornalisti di riferimento propongono sistematicamente da anni per far uscire il nostro Paese dalla crisi economica. Enunciazioni di principio che da anni ascoltiamo giornalmente nei chiassosi talk show televisivi o nelle trasmissioni radiofoniche.
Ogni tentativo di soluzione si infrange però nel muro della divisione perchè inevitabilmente non riesce ad accontentare la totalità dei cittadini: quello che è gradito agli imprenditori scontenta i lavoratori e i loro rappresentanti sindacali, le proposte dei partiti di destra vengono avversate a priori dai partiti di sinistra, se la soluzione proposta tutela i consumatori ad insorgere sarà questa o quella lobby che si sentirà penalizzata.
La conseguenza è che nessuno fa mai nulla. Anche perché i politici, è il caso di ricordarlo, hanno le mani legate, sono condizionati dal voto e non potranno mai danneggiare i loro elettori di riferimento concordando soluzioni vere e super partes perché il nostro Paese possa uscire dalla crisi.
Eppure invece di dividersi (spesso per motivi banali e insignificanti) i partiti politici, i loro economisti e i loro giornalisti di riferimento, dovrebbero cercare di collaborare nell’interesse comune e insieme trovare la soluzione migliore perché l’Italia, Paese in cui i lavoratori dipendenti e i pensionati contribuiscono per circa il 90% alle entrate dello Stato, possa rinascere.
Qualche tempo fa mio padre, avvocato tributarista, in pensione ma ancora appassionato di questa materia e sempre in cerca di soluzioni perché il fisco sia più equo ed equilibrato, aveva fatto una chiacchierata con un ciabattino cagliaritano che gli aveva raccontato di essere molto contento di questa crisi economica.
“Fino a qualche anno fa il mio lavoro era molto scarso – gli aveva confidato l’artigiano -. Ma da quando c’è la crisi economica la richiesta di riparazione delle scarpe è enormemente aumentata. I miei clienti sono ovviamente persone il cui reddito o non c’è o è modesto“.
Raccontandomi l’episodio, mio padre mi aveva poi confidato di aver fatto questo ragionamento: “Perché, se tante persone che appartengono a un ceto medio-basso hanno liberato dalla crisi economica un ciabattino, i dipendenti, i pensionati e i tanti lavoratori autonomi e piccoli imprenditori che contribuiscono per circa il 90% alle entrate dello Stato non possono essere gli artefici della ripresa economica dell’Italia?“.
“Come?“, gli avevo chiesto io.
“In effetti sembra una cosa impossibile –era stata la sua risposta -. Eppure se si diminuisse la pressione fiscale riducendo per esempio al 10 o al 15% l’aliquota IRPEF per i lavoratori dipendenti e i pensionati, se si determinassero nel 5 o 8% sui ricavi l’IRPEF e l’IRAP dovuta dai lavoratori autonomi e dagli imprenditori e l’IRES e l’IRAP dovuta dalle società, l’Erario avrebbe delle entrate analoghe a quelle sempre percepite. Ma con una differenza: in conseguenza della minor pressione fiscale le persone fisiche e giuridiche avrebbero una disponibilità economica rilevante che consentirebbe loro di soddisfare tanti bisogni che fino ad ora non hanno potuto soddisfare: ristrutturarsi la casa, acquistare e ripararsi gli elettrodomestici, acquistare capi di abbigliamento di buona fattura e non di infimo ordine come accade attualmente, viaggiare, partecipare più attivamente alle attività sociali e culturali, ecc…“.
L’inevitabile aumento della domanda, aveva aggiunto, determinerebbe inevitabilmente anche una adeguata risposta da parte degli imprenditori che dovrebbero impegnarsi a produrre i beni e dare i servizi richiesti: ciò comporterebbe la creazione di nuovi posti di lavoro. Non solo: l’Erario, per effetto dei maggiori ricavi conseguiti dalle imprese e dai lavoratori autonomi e in conseguenza dell’aumentato numero di lavoratori dipendenti, vedrebbe aumentare considerevolmente le sue entrate.
Insomma, per farla breve in base a questa teoria, che poi abbiamo ovviamente chiamato teoria del ciabattino, una volta ridotto il numero dei disoccupati e riattivate le imprese industriali, artigianali e commerciali per esigenze di mercato e senza assistenzialismo, si potrebbe pensare alla crisi economica come una cosa finalmente superata.
Poi ovviamente lo Stato dovrebbe impegnarsi un po’ di più ad utilizzare meglio le risorse pubbliche curando particolarmente la scuola e la sanità, ma questa è un’altra storia. Questa del ciabattino ho voluto raccontarla perché forse non sarebbe una cosa sbagliata se i nostri economisti e i soloni che ci governano, grandi esperti di fumose teorie ma poco attenti ai meccanismi dell’economia quotidiana, andassero qualche volta a lezione da un umile e pragmatico ciabattino. Magari imparerebbero qualcosa.
Alessandro Zorco, giornalista (Blogosocial)
(admaioramedia.it)