Alla luce dei fatti, a decretare la vittoria dei catalani non sono state tanto le schede inserite nelle urne, quanto i manganelli usati sulle persone inermi che erano lì per esprimere democraticamente il loro voto. Mi perdoneranno i propugnatori dell’indipendenza della nostra terra sarda se, anche dopo il referendum catalano, continuo a ritenere che essa sia più che mai un’utopia.
Anzi, la mia convinzione si rafforza proprio alla luce delle reazioni dei vari gruppuscoli sardi, tutti pronti ad inneggiare il comportamento dei catalani, ad inveire contro la repressione spagnola ma, allo stesso tempo, rimanendo ognuno sulle proprie posizioni, timorosi di perdere il poco e insignificante potere dato da quel minimo, quasi inesistente, microcosmo che vantano di avere. Avevo immaginato che la posizione, abbastanza coraggiosa, assunta dai catalani, potesse essere una occasione unica per sollecitare una concreta possibilità di unire il popolo sardo sotto un unico vessillo, anzi una sollecitazione ai partiti nazionali perché si facessero anche loro portatori di un contributo, quanto meno per una autonomia seria, visto, tra l’altro, che questa è prevista dalla Costituzione italiana. Dolorosamente devo prendere atto di essermi sbagliato, anzi di non aver capito che, per molti cosiddetti sardisti i ‘moti’ catalani rappresentavano solo un’occasione per parlare ma, allo stesso tempo, mantenere quello status quo utile solo solo a loro.
Una voce fuori dal coro, in effetti c’è stata: Mauro Pili, con tempismo, ha immediatamente presentato una proposta di legge per promuovere un referendum sardo sull’indipendenza. Ho immediatamente pensato che fosse una prima provocazione, ben sapendo che essendo a fine legislatura, la sua proposta sarebbe rimasta lì, agli atti della Camera e, comunque rimaneva come pietra miliare per momenti migliori. In effetti, la proposta Pili, un suo scopo poteva averlo ed era quello di iniziare un dialogo unificatore fra i molteplici gruppi, gruppetti, corpuscoli e plotoncini, quelli che tanto blaterano e poco concludono. No, è stata persa una buona occasione, non è neppure stato compreso che la reazione violenta della Spagna di Rajoy, coadiuvato da un Sovrano improvvido che la ha approvata, avrebbe dovuto essere un argomento ancor più unificante, proprio per quella occasione che era stata fornita e sarebbe dovuto essere un richiamo a tutti i Sardi.
Certo, per chi crede in una Sardegna autonoma che impari a governarsi da sola, è stata una vera delusione sentire la dichiarazione del sardo che più sardo non si può, Gavino Sale: “C’è ancora molto lavoro da fare e non esistono scorciatoie…”. Ma, qual è la strada maestra che sta percorrendo, visto che sono lustri che ci predica una indipendenza dimostrando ora di non sapere esattamente cosa vuole? Perché poi Pier Franco Devias, portavoce di se stesso, dice addirittura “Pili? Posizione fuori luogo. …”. Così gli altri con lo stesso tono.
Quella di Pili sembra la strada più percorribile, è chiaro che l’Italia, come ha fatto la Spagna, non farà mai passare una legge che consenta un referendum per l’indipendenza della nostra regione, ma potrebbe essere, in ogni caso, l’inizio di un dialogo di apertura per rivedere la nostra autonomia, tale da renderla il più vicino possibile all’indipendenza. Purtroppo, bisogna prenderne atto, finchè il popolo sardo sarà portato alle urne e da queste ne uscirà una Giunta regionale come, almeno, le ultime due che hanno governato, credo proprio che gli spazi siano talmente ristretti per poter sperare. Noi sardi dovremmo puntare tutto per di riappropriarci delle tradizioni, la cultura, la lingua, e tutte quelle cose che ci hanno distinto nel lontano passato. Questo è possibilissimo se si remasse tutti nella stessa direzione per ottenere una regione unita, non chiusa in se stessa e proiettata verso un suo autonomo futuro. Corsica docet.
Giuseppe Tusacciu (da Giustus’ Blog)
(admaioramedia.it)